La Madonna dei Monti e San Benedetto Labre, il “vagabondo di Dio”
Il 26 aprile del 1579 il Rione Monti fu scosso, è proprio il caso di dire, da un evento miracoloso. A poca distanza dal Colosseo, nei pressi di via Cavour, nel mezzo di quella Suburra tanto amata e frequentata dal Caravaggio, esisteva un monastero delle clarisse in seguito abbandonato e trasformato in casa d’affitto. Una notte di aprile del 1579 tutta la casa tremò dalle fondamenta, provocando timore e sconcerto tra gli affittuari. I proprietari, dopo il ripetersi di questi eventi, nei giorni seguenti mandarono qualcuno a controllare la struttura. La storia narra che un certo Giampietro entrò in uno dei locali, allora adibito a fienile, per verificare la solidità dei muri. Ma mentre colpì con un arnese le pareti, sentì una voce che diceva: “non mi ferire!”, ed ancora “perdonate a mio Figlio se non a me”. La voce proveniva da un’immagine della Madonna con il Bambino Gesù tra i Santi Stefano, Lorenzo, Francesco e Agostino, dipinta su una parete dell’ex sala del monastero. La notizia si diffuse rapidamente nel rione ed una donna di nome Anastasia, cieca, accompagnata da due amiche davanti all’immagine della Madonna, riacquistò la vista. Dopo questo evento miracoloso ogni giorno una gran folla di infermi e fedeli si accalcava davanti alla casa, finché Papa Gregorio XIII (1572-1585) decise di far trasferire l’immagine miracolosa nella vicina chiesa di San Salvatore ai Monti. Ma il popolo non era d’accordo, non voleva che la “loro” Madonna lasciasse quella casa e fece di tutto per impedirlo. E ci riuscì. I miracoli proseguirono e il Papa acconsentì che intorno a quell’immagine nascesse la chiesa della Madonna dei Monti affidandone la costruzione all’architetto Giacomo della Porta.
Nel 1583 il senato e il popolo di Roma, decretarono che ogni 26 di aprile, anniversario del primo miracolo non si tenessero sedute in Campidoglio e si andasse alla Madonna dei Monti per assistere alla Messa e offrire un calice d’argento.
Sempre ad aprile, ma del 1783, e precisamente il 16, proprio sui gradini di questa chiesa fu colpito da malore San Benedetto Labre, il “vagabondo di Dio”. Nel suo sacco di povero pellegrino portava con sé tutti i suoi tesori: il Nuovo Testamento, l’Imitazione di Cristo e il breviario che recitava ogni giorno; sul petto portava un crocifisso, al collo una corona e tra le mani un rosario. Morì in una casa di via dei Serpenti e fu sepolto in questa chiesa. La sua morte fu seguita da una grande quantità di grazie e di miracoli. Fu beatificato da Pio IX nel 1839 e canonizzato da Leone XIII l’8 dicembre 1883.
La facciata della chiesa ricorda quella del Gesù: Giacomo della Porta, infatti, che aveva già portato a compimento la chiesa madre dei gesuiti iniziata dal Vignola, ripropose qui un’architettura simile che costituì poi il modello sul quale furono costruite migliaia di altre chiese in tutto il mondo.
L’interno rappresenta un esempio tipico di architettura della Controriforma secondo lo spirito dei decreti del Concilio di Trento: fu progettata infatti a navata unica, perché l’attenzione dei fedeli fosse concentrata sull’altare e sul celebrante.
Nella volta, gli affreschi di Cristoforo Casolani raffigurano l’Ascensione, angeli e dottori della Chiesa. La prima cappella di destra, dedicata a San Carlo Borromeo, e decorata dagli affreschi seicenteschi di Giovanni di S. Giovanni, fu costruita per volere di un ricco mercante ebreo convertito al cattolicesimo di nome Andrea Baccini. Nel transetto, di fronte all’altare dedicato a San Vincenzo de Paoli, c’è quello dedicato a San Benedetto Labre la cui statua venne scolpita da Achille Albacini, allievo del Canova, nel 1892. Dietro la statua c’è un bastone da cieco lasciato come ex–voto da un sacerdote romano miracolato nella notte di Pasqua del 1995.
L’altare maggiore, di Giacomo Della Porta, formato da una fastosa edicola sormontata dalle statue del Salvatore tra gli angeli, racchiude l’immagine miracolosa della Madonna. Le stelle presenti sul manto sono otto–novecentesche, e sono tutti ex voto per grazie ricevute. Ai piedi dell’affresco è presente una cassettina con i nomi dei capifamiglia del rione. Nel 1941 essi fecero voto che se fossero stati salvati dalla guerra avrebbero ricostruito il pavimento, che in effetti venne rifatto nel 1950. Anche la cornice di legno dorato con angeli è un ex voto per lo scampato pericolo durante la Repubblica Romana del 1848–49, quando lo stesso parroco, don Pietro Sciamplicotti dovette abbandonare la parrocchia perché condannato a morte dal governo repubblicano.
Nell’abside sono gli affreschi del Gemignani a imitazione di grandi arazzi barocchi. Nella cupola tra gli altri vi sono gli angeli opera di Cesare Nebbia e del caravaggesco Orazio Gentileschi.
Non si può terminare la visita senza entrare nella splendida sagrestia dove è presente un lavabo marmoreo disegnato da Onorio Longhi alla fine del Cinquecento insieme ad armadi e cassettoni del Seicento, realizzati in noce.
Mauro Monti
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28 Aprile 2016