1° marzo: Mercoledì delle Ceneri
Dal Sussidio CEI – Quaresima 2017, a cura dell’Ufficio Liturgico Nazionale
Parola di Dio
Gl 2,12-18 Laceratevi il cuore e non le vesti.
Sal 50 Perdonaci, Signore: abbiamo peccato.
2Cor 5,20 – 6,2 Riconciliatevi con Dio. Ecco ora il momento favorevole.
Canto al Vangelo (Sal 94,8ab) Oggi non indurite il vostro cuore, ma ascoltate la voce del Signore.
Mt 6,1-6.16-18 Il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà.
Ritornare
Il libro di Gioele si apre con la descrizione di terribili flagelli che colpiscono la terra di Giuda, e si conclude con l’annuncio di un futuro in terra paradisiaca. Questo rovesciamento di prospettiva segna la teologia di quest’opera profetica: prima di condurre alla salvezza, l’azione divina ha bisogno di sconvolgere il mondo. In Gioele si individuano così le primizie di un tema che avrà un grande successo nella letteratura apocalittica: quello del dramma escatologico della fine dei tempi. Per questo motivo la prima parte della lettura che introduce il tempo di Quaresima è tutto un invito a diventare consapevoli del bisogno di salvezza attraverso una serie di azioni che ne esprimano l’urgenza e l’importanza. Puntando l’attenzione alla trappola del formalismo religioso, la voce profetica propone di iniziare il processo di conversione dalla lacerazione del cuore, anziché da quella delle vesti. Non si tratta di un invito all’autolesionismo, ma di un appello a riconoscere che le ferite e le fratture interiori meritano di essere portate alla luce senza paura, perché il Signore «è misericordioso e pietoso, lento all’ira, di grande amore, pronto a ravvedersi riguardo al male» (Gl 2,13). Del resto, la prospettiva di ogni autentica conversione non è mai il tentativo di modificare il pensiero o l’agire di Dio – e in un certo senso nemmeno il proprio – ma di poter fare ritorno alla sua presenza e alla sua alleanza. Ogni autentico cambiamento della vita e delle sue istanze morali non può che essere la conseguenza di un ritorno meditato e abbracciato nella fede.
Chissà?
La speranza che la conversione non debba essere uno sforzo o una nostra iniziativa per meritare il favore divino, ma un percorso orientato a scoprire il desiderio che Dio ha di incontrare ancora la nostra umanità, si traduce, nel cuore del profeta, in un intrigante invito rivolto al popolo: «Chi sa che non cambi e si ravveda e lasci dietro a sé una benedizione?» (Gl 2,14). La forma dell’auspicio, più sobria e prudente di qualunque affermazione, non toglie nulla alla speranza del possibile ritorno, mentre lo colloca sul piano della relazione, nel gioco di libertà di cui il dono dell’alleanza con Dio si nutre. Il profeta sottolinea anche come il ritorno a Dio non possa e non debba essere affrontato come un cammino individuale. Bisogna proclamare un digiuno solenne e convocare un’assemblea sacra perché ogni allontanamento da Dio non avviene mai a causa del singolo, ma è il frutto di una trama di comunione che si logora e si frantuma: «Radunate il popolo, indite un’assemblea solenne, chiamate i vecchi, riunite i fanciulli, i bambini lattanti; esca lo sposo dalla sua camera e la sposa dal suo talamo» (Gl 2,16). La violazione dell’intimità del talamo, con cui si conclude il richiamo profetico, vuole essere presagio di una possibile intimità da recuperare con Dio. Infatti, il libro di Gioele articola il motivo del giudizio di Sion con quello della sua salvezza e il rovesciamento di prospettiva si opera proprio in 2,18, dove finalmente vengono affermati lo zelo e la pietà di YHWH per il suo popolo: «Il Signore si mostra geloso per la sua terra e si muove a compassione del suo popolo» (2,18).
Praticare
Le indicazioni di Gesù nel vangelo di Matteo portano a compimento le visioni profetiche di Gioele, evitando di definire il cammino della conversione come un intenso sforzo da compiere per eliminare — o almeno ridurre — il male o l’imperfezione ancora presenti nella nostra vita. Anzi, presentando ai suoi discepoli quelli che la tradizione rabbinica ha definito «i tre pilastri del mondo» (la preghiera, l’elemosina e le opere di misericordia), appena prima di «insegnare» loro la preghiera del Padre nostro, Gesù afferma che un certo modo di migliorare il volto della nostra umanità può essere addirittura rischioso se è compiuto per inseguire lo sguardo degli altri, anziché cercare il volto del Padre: «State attenti a non praticare la vostra giustizia davanti agli uomini per essere ammirati da loro, altrimenti non c’è ricompensa per voi presso il Padre vostro che è nei cieli » (Mt 6,1). Tuttavia il suggerimento del Maestro è molto preciso. Ciò che si mette in discussione non è la prassi, ma l’esercizio di una giustizia «propria» che rende del tutto inutile quella giustificazione che Dio vuole concedere ai suoi figli come perdono e misericordia. Tutte le raccomandazioni a restare fedeli ai «tre pilastri» della tradizione di Israele sono volte, infatti, a educare un modo di compiere atti religiosi facendo attenzione che il fine non sia quello di «essere lodati», «essere visti» dagli altri e dalla gente. La posta in gioco, secondo l’insegnamento di Gesù, è altissima e coincide con la stessa rivelazione della sua alleanza nuova ed eterna: «…e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà» (Mt 6,18). Istruendo i discepoli circa i modi della vita spirituale, Gesù consegna già il fine ultimo dell’esperienza evangelica, che è l’accesso a una relazione filiale con Dio, dove le cose non si fanno più né come sforzo, né per uno scopo, ma unicamente come figli amati e redenti.
Riconciliare
Ascoltando la voce di Paolo, scopriamo infine che la conversione a cui il tempo di Quaresima vuole orientare il cammino dei credenti si sviluppa a partire da una disponibilità a lasciarsi «riconciliare con Dio» (2Cor 5,20) per ricominciare a tessere, con lui e in lui, il filo prezioso della nostra umanità. Le motivazioni per intraprendere questo santo viaggio sono tutt’altro che scontate o insufficienti. Le proclama l’apostolo Paolo, mostrando quanto amore precede e accompagna i passi di ogni autentico ritorno all’amore di Dio: «Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo fece peccato in nostro favore, perché in lui noi potessimo diventare giustizia di Dio» (2Cor 5,21).
Il peccato di cui parla l’apostolo viene presentato nella riflessione non solo come una realtà che Dio è disposto ad accettare o a scusare, ma addirittura come qualcosa con cui è disposto a immedesimarsi fino in fondo. L’espressione «in nome di Cristo», in stato enfatico iniziale, può indicare «favore» o «sostituzione». Nel primo caso gli apostoli dovrebbero operare a vantaggio di Cristo in quanto suoi ambasciatori; nel secondo caso, invece, svolgono addirittura una funzione vicaria, svolgendo «al suo posto» il ministero di riconciliazione. Le due prospettive sono entrambe possibili, dal momento che è tipico di un ambasciatore sia fare le veci che operare con l’autorità del mandante.
Questa consapevolezza, di essere la voce che «aiuta» e «incarna» il volto paterno di Dio, disposto ad accogliere il ritorno di tutti i suoi figli, accompagna la Chiesa nel tempo della Quaresima, ponendo in fondo al suo cuore materno quell’urgenza di riconciliazione che palpita nel cuore dello stesso Dio: «Ecco ora il momento favorevole, ecco ora il giorno della salvezza!» (2Cor 6,2).
(fonte chiesacattolica.it)
1 Marzo 2017