“I Promessi Sposi” di Salvatore Nocita introdotti dallo scrittore Andrea Monda.

Monda

PRIMA PUNTATA

La prima puntata inizia con la passeggiata di don Abbondio e l’incontro coi bravi e termina con la notte degli imbrogli e la partenza per Monza e l’addio ai monti. (capp.1-8)

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3 parole-chiave: misericordia, ingiustizia, umorismo.
La prima puntata si apre con la descrizione, precisa e meticolosa, del piccolo mondo in cui si svolgerà l’azione della vicenda narrata e si chiude con un’altra descrizione, questa volta commossa e lirica, del caro piccolo mondo abbandonato da Renzo e Lucia che fuggono dal loro paesello. Lungo quest’arcata si svolge il primo atto del romanzo che però già ci presenta quasi tutti i suoi personaggi più importanti e racchiude tutti i principali temi cari a Manzoni: la misericordia e la grazia, che piovono rendendo meno arida una terra dominata dal male, dalla sopraffazione e dall’ingiustizia, tutto questo raccontato con uno sguardo intriso di pietà e umorismo, acutezza psicologica e profondo realismo.
Dal “ramo del lago di Como..” all’”addio monti sorgenti”, l’importanza del paesaggio («Quel cielo di Lombardia così bello quand’è bello, così splendido, così in pace», cap. XVII.): ecco che come forse tutte le grandi storie, anche questa comincia con un paradiso che deve essere abbandonato, con un esilio. Tutto il romanzo sarà il cammino che serve, ai personaggi, per trasformare l’esilio in un esodo, la sofferenza in un’occasione di crescita, di cammino verso la responsabilità.
Emblematici da questo punto di vista i due personaggi più in vista in questi primi 8 capitoli: don Abbondio e Fra Cristoforo, quasi uno l’opposto dell’altro (Manzoni è cattolico di grande fede vissuta e praticata ma è anche sommo artista, uno spirito libero che rappresenta efficacemente diversi volti della chiesa cattolica, Abbondio, Gertrude, Cristoforo, Federigo.. non nascondendo anche le miserie e i compromessi dei ministri di Dio). Ludovico/Cristoforo è l’uomo che è stato perdonato, che porta con sé il pane del perdono (e poi lo consegnerà, nel finale, ai promessi sposi) e questo lo ha cambiato, la conversione ha incanalato e diretto la forza irruenta del suo carattere verso il bene e il servizio degli altri. Don Abbondio non ha conosciuto questa grazia, e non è cambiato, non cambierà… rimarrà schiavo delle sue paure, non vivrà mai fino in fondo ma fuggirà tutto e tutti.

SECONDA PUNTATA

Tre parole-chiave anche in questa seconda puntata che vede la storia allargarsi con le disavventure di Renzo a Milano (la crisi del pane, l’assalto al forno delle grucce e l’equivoco per cui Renzo viene sospettato come sovversivo e bandito dalla città) e quelle di Lucia a Monza, affidata alle ambigue mani di Gertrude: lingua, popolo, coscienza.

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La lingua: è la grande novità del Manzoni che opta per la lingua del popolo, rendendo I Promessi Sposi, sin dall’inizio, un romanzo di incredibile successo e ancora oggi forse il testo dell’800 più accessibile e godibile anche per i giovani del terzo millennio. E’ la stessa scelta operata da Dante con la Divina Commedia (che Petrarca suggeriva di comporre in latino): la lingua volgare, semplice, quotidiana, che nasce dal basso, dal popolo; Manzoni ha voluto coraggiosamente scrivere un testo per il popolo che ha contribuito a formare e costruire la lingua stessa degli italiani. E quanto abbia influenzato il lessico italiano lo testimoniano, tra le mille cose, anche l’impatto dei nomi dei singoli personaggi, da Perpetua ad Azzeccagarbugli a don Abbondio.. nomi che sono entrati nel tessuto dell’idioma nazionale.
Il popolo: Manzoni sceglie poi di rovesciare la prospettiva storica e raccontare la storia “dal basso”, non solo per lo stile ma appunto per la prospettiva: sono gli umili i protagonisti, la “gente meccanica e di piccolo affare”, non i grandi re e sovrani ma il popolo minuto con le sue paure e fragilità, grandezze e bassezze, slanci di generosità e grettezze e questa fede tenace e semplice in Dio e nella sua Provvidenza.
La coscienza: lo vedremo poi meglio nelle prossime puntate, ma emerge questo romanzo come romanzo della coscienza, quella inquieta e quella che “facilmente si acquieta” (Sciascia), dei vari personaggi come don Abbondio, Ferrer, Conti Zio, Azzeccagarbugli.. ma, per fortuna, c’è sempre qualcosa o Qualcuno che arriva provvidenzialmente a turbare gli animi, come vedremo nella prossima puntata (la monaca di Monza) e in quella dopo (l’Innominato) e smuovere così i cuori e con essi la storia, la piccola e la grande Storia.

TERZA PUNTATA

Anche in questa terza puntata possiamo indicare tre parole chiave: responsabilità, peccato, paura.
La vicenda di Gertrude la monaca di Monza domina la terza puntata: emerge la grande finezza letteraria di Manzoni in particolare nell’attenzione alla psicologia dei personaggi.

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Seguendo la storia di Gertrude Manzoni descrive la progressiva perdizione di questa donna che frana lentamente verso il baratro di una vita perduta. L’incontro tra Egidio e Getrude ricorda il peccato di Davide con Betsabea: “Costui, da una sua finestrina che dominava un cortiletto di quel quartiere, avendo veduta Getrude qualche volta passare o gironzolar lì, per ozio, allettato anzi che atterrito dai pericoli e dall’empietà dell’impresa, un giorno osò rivolgerle il discorso. La sventurata rispose”.
C’è quest’ozio, questo torpore in cui cresce la resa al Male, da questo punto il Bene appare come un risveglio, un richiamo alla coscienza che, interpellata, può rispondere. I promessi sposi come romanzo della responsabilità e della coscienza, dell’inquietudine, a cui si può rispondere anche mettendola o mettendosi a dormire (si pensi alle tante “notti”, di Getrude, di Don Abbondio, dell’Innominato..). La vita è una lotta, un duello: il duello tra Gertrude e i genitori, il duello interiore tra la grazia e la rabbia, Manzoni non risparmia sofferenze al lettore, scrivendo un libro che tormenta, che non lascia in pace il lettore che soffre insieme ai personaggi della storia. “Il libro è l’unico essere che ha un cuore che batte nel petto di un altro”, come dice C.S.Lewis: il lettore si ritrova, “legge” se stesso. Aggiunge Carlo Bo: l’esperienza della letteratura è come un ponte che mette in comunicazione due abissi: quello dello scrittore con quello del lettore. Chi legge questo libro ne rimane “toccato”, perchè è un libro “abissale”.
In parallelo scorrono le vicende di Gertrude, tragica vicenda di una giovane donna che cade in un vero abisso e quella anch’essa drammatica di Renzo, le cui disavventure non cessano, ed addirittura egli diventa un fuorilegge, su cui pendono avvisi di taglia: l’umile e semplice Renzo che spinto dalla sua “lieta furia dei vent’anni”, animato dalle migliori intenzioni viene scambiato per un pericoloso sovversivo… Ancora una volta pietà e umorismo s’intrecciano nella narrativa del Manzoni.
Ma torniamo a Gertrude, questa donna “sventurata” che risponde: la vita è innanzitutto una risposta, di fronte al destino che prende l’iniziativa e incalza l’uomo, ogni essere umano si sente chiamato, e sente di dover rispondere, e il punto dunque è “a Chi rispondere?”. Come ebbe a dire Benedetto XVI: “La vita cristiana comincia con una chiamata e rimane sempre una risposta, fino alla fine”. Se la vita è una risposta, in gioco c’è la responsabilità dell’uomo, quella capacità a rispondere che rende l’uomo quello che è, e ne fonda e custodisce la dignità. Gertrude, vittima del suo tempo (e dell’avidità di ogni tempo) – il Manzoni non nasconde costumi e malcostumi di un certo cristianesimo solo formale e ipocrita, freddo e arido – ebbene Getrude spende male la sua responsabilità, rispondendo ad una chiamata a cui non doveva rispondere e si perde, si arrende al peccato, ma ancora una volta si avverte il realismo e la pietà dell’autore in quell’aggettivo: la sventurata.
In questa parte centrale del romanzo tutta l’avventura di Renzo e Lucia sembra piuttosto una sventura, la trama sembra far emergere il trionfo (apparente) del male: la sopraffazione da parte del padre di Gertrude; le trame e gli imbrogli di Rodrigo e Attilio, che però sono in realtà “pesci piccoli”, devono rivolgersi ad uno più grosso di loro, l’Innominato.
L’Innominato e Gertrude: un’altra straordinaria coppia di personaggi, un po’ come don Abbondio e Fra’ Cristoforo: anche qui la stessa dinamica che abbiamo visto all’inizio del romanzo, e che vedremo fino alla fine: la grazia arriva e passa tra le storie delle persone, alcune si lasciano toccare e cambiano, altre si lasciano solo sfiorare, ma sono sopraffatte dalla paura, non si aprono al lavoro della grazia (un lavoro fatto anche di tormento e di lacerazione interiore, di desolazione ma anche di consolazione). Cristoforo cambierà, non così Abbondio, l’Innominato cambierà, lo vedremo nella quarta puntata, non così Gertrude che, come e più di Abbondio, sprofonderà progressivamente nel suo abisso di paure, sentimento e risentimento.
Con l’arrivo dell’Innominato, questo grandioso e pauroso personaggio il romanzo tocca il punto più alto, dal punto di vista del Male, ma anche l’inizio della crisi e il punto di svolta, nel buio splende una piccola luce: Lucia.

QUARTA PUNTATA

Anche sulla quarta puntata 3 parole chiave: perdono, coraggio, pace

Lucia arriva al castello dell’Innominato. Come la terza puntata era dominata dalla figura di Getrude questa quarta puntata è dominata dall’Innominato. Lucia è là, suo ostaggio, ma egli è già un ostaggio, un condannato, apparentemente a morte. Come dice il libro dei Proverbi: “L’empio fugge, ma non c’è nessuno che lo insegue”. Un uomo in fuga, ecco chi è l’oscuro personaggio dell’Innominato.

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Lucia è là perchè egli aveva dato la sua parola a don Rodrigo, contando sulla sicura collaborazione di Egidio “uno de’ più stretti ed intimi colleghi di scelleratezze che avesse l’innominato”, un bel triangolo, non c’è che dire: Rodrigo-Egidio-Innominato. In nome di questa “intima complicità” l’Innominato, scrive Manzoni, “aveva lasciata correre così prontamente e risolutamente la sua parola” ma, badate bene: “Ma appena rimase solo, si trovò, non dirò pentito, ma indispettito d’averla data”. Dal “dispetto” al “pentimento” il passo sarà breve ma certo non indolore. A ricevere la grazia si deve essere pronti (è quel “trovarsi indispettito”) ma al tempo stesso la grazia porta uno scompiglio che può risultare devastante quanto vitale, capace di trasformare sin alla radice la vita degli uomini. La vicenda narrata in questi capitoli è la storia di come il triangolo Rodrigo-Egidio-Innominato viene rovesciato e trasformato in quest’altro triangolo: Innominato-Lucia-card.Federigo.
E’ la svolta decisiva del romanzo, proprio mentre il Male sembra prevalere ecco che tutto si sfalda, si sgretola, frana rovinosamente. E’ la “morale” del Magnificat: i potenti sono rovesciati dai loro troni e gli umili vengono esaltati. L’umile, piccola e tremebonda, Lucia fa tremare l’oscuro e potente Innominato. Prima ancora del loro incontro già si avvertono le prime crepe nel muro di questo uomo duro e spietato: le parole che il Nibbio gli riporta segnano la prima breccia, quando Nibbio racconta del suo viaggio in carrozza con Lucia e dice la parola: “compassione”, la compassione che è come la “paura”. E’ Lucia che trema ma in realtà fa tremare.
La gloria degli uomini crolla come polvere di fronte alla morte e al destino ultimo della vita (l’Innominato come il Napoleone del 5 maggio) mentre aprirsi al perdono misericordioso di Dio permette di far penetrare ancora una luce anche nella stanza più buia della propria vita: la notte dell’Innominato. Lucia, questo nome che già in sé contiene la luce, è figura della grazia, si realizza con la sua drammatica avventura del rapimento e della prigionia nel castello dell’Innominato quella famosa definizione della narrativa che ha dato una volta per tutte Flannery O’Connor per cui ogni romanziere non fa altro che “descrivere l’opera della Grazia in un territorio occupato per lo più dal diavolo”. Lucia è come un punto luminoso che dove passa getta una luce che provoca sì tormento e toglie la pace, ma per restituirla più ampia e profonda. I piccoli e meschini piani di don Rodrigo cadono in frantumi per il semplice arrivo di questo piccolo punto di luce che dove arriva getta lo scompiglio.
Se I promessi sposi è il romanzo della misericordia l’incontro tra Lucia e l’Innominato e quello immediatamente successivo tra l’Innominato e il card.Federigo rappresentano il cuore del romanzo. La battuta chiave in questo senso è quella, famosissima, di Lucia al suo carceriere: “Il Signore perdona tante cose per un’opera di misericordia!”. Lucia chiede di essere liberata ma è lei che sta liberando chi la sta tenendo in prigionia. E’ proprio vero che “perdonare è liberare un prigioniero e scoprire che quel prigioniero eri tu”. La frase e il volto luminoso di Lucia svolgono la pars destruens, a ricostruire le basi per la nuova vita dell’Innominato ci penserà il card.Federigo.
Il card.Federigo, volto luminoso della chiesa. Egli va incontro al peccatore, come il padre del figliol prodigo e dà il perdono che genera la conversione. Come il buon pastore che, lo dice esplicitamente lui stesso: “Lasciamo le novantanove pecorelle, sono in sicuro sul monte: io voglio ora stare con quella ch’era smarrita”. E’ facile capire ora perchè questo romanzo è il romanzo preferito di papa Francesco.
Con un finale pieno di umorismo, vediamo questo strano viaggio di ritorno: l’Innominato accompagnato da don Abbondio che tornano a liberare Lucia. Il curato ha confessato (altra celebre battuta): “il coraggio chi non ce l’ha, non se lo può dare” e ora si trova a camminare a fianco del grande bandito. Chi accompagna chi? Chi ha più paura dell’altro? E chi è più “in pace”? Il grande criminale pentito o il piccolo prete irriducibilmente chiuso nel suo tormentoso animo pavido?

QUINTA PUNTATA

3 parole-chiave: storia, grazia, provvidenza

Sullo sfondo la storia dei piccoli e degli umili si incrocia con la grande Storia: la guerra, l’arrivo dei Lanzichenecchi e la piaga della peste. Nell’ultima parte del romanzo si svolge un’altra galleria di personaggi e di situazioni (Ferrer, don Ferrante e donna Prassede, la psicosi del contagio e la caccia all’untore…) descritti con il solito sagace realismo di Manzoni.

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Protagonista di quest’ultima puntata forse è proprio la peste. Questo male che si abbatte, flagellando tutto e tutti, senza pietà e senza distinzioni. Tutti vengono colpiti: anche Renzo e Lucia, oltre che Fra Cristoforo e don Rodrigo. La peste colpisce ma non annulla, non appiattisce, non omologa… il cattolico Manzoni conosce l’importanza del nome, del nome di ciascuno: l’episodio della madre di Cecilia, di questa piccola bambina di cui veniamo a conoscere il nome, un altro nome del canone della chiesa: Agnese, Perpetua, Lucia, Cecilia…
Con l’arrivo della peste, castigo e/o provvidenza divina, la storia accelera verso la fine, verso la realizzazione della giustizia che dall’inizio è rimasta in attesa di compimento. Tutti i fili della trama quindi si riannodano e tessono l’immagine finale, il matrimonio tra Renzo e Lucia, sogno a lungo desiderato e atteso dai due giovani innamorati.
In mezzo c’è la questione del voto e dello scioglimento operato dal morente (ma sempre energico) fra’ Cristoforo. Lo “scioglimento” è il fenomeno che dà il senso del romanzo: gli uomini sono induriti dalla vita, dagli stenti, dalle sofferenze e dalle ingiustizie, anche Lucia, la più luminosa delle figure del romanzo, si è “indurita” nel suo giuramento.. e solo l’abbandonarsi con fiducia ad un amore più grande permette questo scioglimento che è l’unica vera fonte di vita.
Il passaggio attraverso il perdono anche del nemico di don Rodrigo si rivela un momento necessario e significativo: il sempre furioso e impetuoso Renzo, calmato da Cristoforo, troverà in questo passaggio il suo necessario “scioglimento”. Emerge come “morale” della vicenda il perdono, il “dimitte nobis debita nostra”..
Ma la conclusione del romanzo è tutta una riflessione sulla Provvidenza, su questa presenza di una luce più alta (la luna della notte degli imbrogli) che illumina e riscatta ogni piega umana, anche quella più incrostata e incancrenita. Questa presenza getta una luce di speranza che arriva dappertutto e tutti sono chiamati ad aprirsi a questa Grazia; ognuno dei personaggi risponderà in piena libertà a questa chiamata, diventando a sua volta strumento ed occasione di (dis)grazia per se e per gli altri. Le mille tribolazioni attraversate dagli umili protagonisti del romanzo hanno lasciato il segno, la grazia non è gratis, né a basso costo. Al termine della vicenda avverrà l’esodo, non l’esilio, già anticipato con l’addio ai monti (quello sì che era un esilio): gli sposi, finalmente sposati e proprio da don Abbondio, se ne andranno via dal paesello, che ormai è troppo “stretto” per loro, sono infatti cresciuti. In questo senso I promessi sposi sono un romanzo di formazione e i due protagonisti avranno appreso diverse lezioni: “Il bello era a sentirlo raccontare le sue avventure: e finiva sempre col dire le gran cose che ci aveva imparate, per governarsi meglio in avvenire. Ho imparato..” (non predicare in piazza, guardare con chi parlo, non alzare il gomito…). Lucia ovviamente non è d’accordo, i due sembrano litigare: il finale è lieto ma anche agrodolce. Al termine le parole di Cristoforo rivolte agli sposi saranno però parole di gratitudine: «Ringraziate il cielo che v’ha condotti a questo stato, non per mezzo dell’allegrezze turbolente e passeggere, ma co’ travagli e tra le miserie, per disporvi ad un’allegrezza raccolta e tranquilla».
E il “sugo della storia” è ben noto a tutti i milioni di lettori di questo grande romanzo italiano e cristiano:
«Dopo un lungo dibattere e cercare insieme, conclusero che i guai vengono bensì spesso, perché ci si è dato cagione; ma che la condotta più cauta e più innocente non basta a tenerli lontani, e che quando vengono, o per colpa o senza colpa, la fiducia in Dio li raddolcisce, e li rende utili per una vita migliore.»

5 Giugno 2015

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