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Insieme al primo comandamento, che abbiamo esaminato nella puntata precedente, il secondo e il terzo riguardano il braccio verticale della croce, cioè il rapporto tra gli uomini e Dio. Si può infatti immaginare il Decalogo come un testo che sviluppandosi mette a fuoco l’immagine della croce con un braccio verticale (i primi tre comandamenti) che scende dall’alto, anzi dall’Altissimo, e procede venendo incontro gli uomini e poi distendendosi nel braccio orizzontale, dal quarto al decimo comandamento che riguardano i rapporti tra gli essere umani; con le parole che Gesù ha elevato a summa dei 10 comandamenti “l’amore verso Dio e l’amore verso il prossimo”, il doppio volto del nuovo comandamento, quello dell’amore, che racchiude il senso di tutta la Legge. Il secondo comandamento riguarda il nome di Dio, il nome che deve essere tutelato, difeso, rispettato, pronunciato con timore e tremore. Perchè nella mentalità semita (e biblica) il nome di una persona, di un animale, di una cosa ne racchiude il senso, il mistero, il destino: dire il nome equivale a conoscere e possedere la realtà che viene nominata. Per questo Adamo dà il nome a tutto il creato che Dio gli presenta davanti. Ma il nome di Dio non lo pronuncia, non potrebbe e tace. Il terzo comandamento ordina invece di festeggiare. Il Dio della Bibbia è il Dio della vita e della vitalità, della gioia. Spezza il tempo, la sua “routine” con un giorno di grazia, di gratuità in cui alla schiavitù del fare si contrappone la libertà del riposare, ristorarsi, ripensare, ringraziare. Il braccio verticale sta già allungandosi in orizzontale, per offrire all’uomo un orizzonte: la festa come anticipazione della vera vita, costituita da “una festa a lungo attesa”, la gioia della comunione con Dio.
18 Marzo 2016