TV2000 CULTURA – A Soul Jean Paul Habimana che ricorda il genocidio del Ruanda e padre Ermes Ronchi
Sabato 7 aprile ore 12.50 e 20.45, domenica 8 ore 12.50 e 20.30 – Jean Paul Habimana e Ermes Ronchi sono i protagonisti di Soul il programma di intervista di Tv2000 condotto da Monica Mondo.
Jean Paul Habimana viene intervistato sabato in occasione dell’anniversario del genocidio dei Tutsi in Ruanda. Professore di religione, sposato e papà di un bimbo di tre anni e vive a Milano. Voleva diventare sacerdote ma poi l’amore è venuto a bussare alla sua porta, un amore che ha colmato anni di sofferenza e patimento. A dieci anni Jean Paul ha visto cose che un bambino non dovrebbe mai vedere, nel suo paese dal 6 aprile a luglio 1994 sono state uccise più di un milione di persone. Fu odio interetnico quello fra Hutu e Tutsi, generato dalla pesante eredità coloniale belga, usato dai governi dittatoriali, strumentalizzato da alcune potenze occidentali. Jean Paul ha perso suo padre, gran parte dei suoi parenti, ha perso la sua giovinezza, ma non la capacità di perdonare, perché “vittime, assassini, alla fine siamo tutti un unico popolo. Entrambi necessitiamo di guarire”. Dapprima il seminario minore in Ruanda, e poi gli studi teologici e filosofici in quello di Reggio Calabria, un percorso in seguito abbandonato per perseguire quella che era la sua vera vocazione, diventare insegnante di religione. È così che Jean Paul tramanda una storia ormai troppo spesso dimenticata, raccontando ai giovani cosa si cela dietro l’odio per un’altra razza.
“Ci chiamavano scarafaggi… Chiamare i Tutsi scarafaggi era quasi come tranquillizzare gli Hutu sul fatto che non stavano uccidendo delle persone, ma degli animaletti”. Eppure prima si andava, o almeno si cercava, di andare d’accordo: “Nelle campagne eravamo amici, però già nel tessuto sociale c’era questo odio profondo. Si sapeva che si poteva studiare solo fino a un certo punto, si potevano fare certi lavori ma altri no. I Tutsi potevano fare certe cose e altre no”.
“In Ruanda siamo un popolo unico, abbiamo un’unica lingua e una sola cultura. L’odio nasce dal colonialismo. I colonizzatori quando sono arrivati in Ruanda hanno preferito dividerci per governarci meglio”. “Il concetto di razza lo abbiamo acquisito dai colonizzatori. Negli anni ’30 mentre preparavano il razzismo in Europa, è in quel tempo che hanno introdotto il concetto di razza in Ruanda, e hanno agito benissimo. Noi che avevamo già le nostre classi sociali, loro le hanno nominate razze e da lì è partito tutto…”
Il ruolo della Chiesa si è rivelato poi in seguito determinante per arginare il conflitto: “La Conferenza Episcopale Ruandese ha fatto molto. La riconciliazione, che si sta vivendo tuttora, è frutto della Chiesa. Io ho studiato nel seminario minore a Cyangugu, in cui ci hanno sempre educato al perdono e alla convivenza, ed erano solo passati tre anni dal genocidio. La comunità internazionale ci ha abbandonato, la Chiesa ha fatto quel che poteva”. “Ogni sabato avevamo dei momenti di preghiera insieme, la sera ci raccontavamo delle storie dove ognuno tirava fuori ciò che aveva vissuto. Nel clima di preghiera ricordo atre anni dal genocidio, che per la prima volta ho sentito figli degli assassini raccontare il loro dolore. Sentire che il figlio di un assassino aveva difficoltà a portare del cibo in carcere al proprio padre, mi ha aperto il mondo. Per me gli Hutu fino a quel momento erano tutti assassini e basta”.
Jean Paul ha compreso e perdonato anche i sacerdoti che hanno preso parte alla lotta, macchiandosi di complicità, tradimenti, viltà e delitti. Come ha gridato senza remore papa Francesco. “Quando il Papa ha chiesto scusa per le colpe della Chiesa in Ruanda io in primis mi sono sentito finalmente bene; è giusto che la Chiesa in quanto universale abbia compreso di aver ferito. Ci sono stati sacerdoti e alcuni laici che hanno partecipato al genocidio, e chi ci ha accolto in parrocchia per salvarsi era di etnia Tutsi. I preti Hutu che hanno partecipato al genocidio lo hanno fatto in quanto uomini, non in quanto preti. Quel che è accaduto non ha risparmiato nessuno”.
Padre Ermes Ronchi è l’ospite di domenica. Friulano, abituato a guardare i monti dell’Altopiano, ha girato il mondo e poi è tornato a Isola Vicentina, dove nella quiete dei campi e dell’eremo svolge il suo ministero sacerdotale, scrivendo, accogliendo tantissimi cercatori di verità e ascolto della Parola di Dio. Servo di Maria, filosofo scrittore, editorialista, volto e voce dei media, è statopredicatore per il papa di Esercizi Quaresimali che sono diventati un libro, Le nude domande del Vangelo. A Soul racconta la sua vocazione, l’incontro con padre Vannucci, le prime esperienze da “ribelle”, in comunità nuove, ispirate dal Concilio, il talento di saper portare il vangelo con la predicazione: come dice il papa, le prediche sono spesso noiose, dunque è un’arte rara…
Dall’ammirazione per padre Vannucci padre Ermes inizia un cammino di fede ma anche di ribellione: “padre Vannucci mi ha cambiato la vita, mi ha convertito”. “Mi ricordo una sua frase bellissima: il Vangelo non è una morale ma una sconvolgente liberazione, e lui ci ha liberato. Eravamo come ingabbiati in un cristianesimo di vecchia tradizione e ha fatto entrare un volto nuovo di Dio, e quello mi ha affascinato”.
Oggi trovare maestri che sanno accendere, affascinare, come padre Vannucci o padre Turoldo per padre Ermes, è davvero complicato. Eppure egli possiede l’utilizzo dell’arte della parola: “A volte mi chiedo anch’io come fanno i cristiani a resistere a certe prediche, certe liturgie tristi. Quello che cerco di fare è non tirare fuori le parole già pronte dal taschino, ma solo quelle che mi hanno fatto soffrire o mi hanno fatto gioire. Sono quelle che nascono dentro con convinzione. Che abbiano fuoco e che magari abbiano inciso dentro di me. Non uso parole preconfezionate da prontuario, solo quelle che mi hanno affascinato o ferito”.
Padre Ermes spiega come la figura moderna di Papa Francesco consideri e stimi la devozione la tradizione popolare: “Da noi l’evoluzione culturale è diversa ed è più faticosa che in America Latina. Però la tradizione popolare è un luogo privilegiato di evangelizzazione. Personalmente credo che il luogo in assoluto preferito sia l’amore, dove si evangelizza e si annuncia l’infinito, l’eternità, tu che vali più dell’Io, l’estasi della vita. La religiosità popolare può esserlo ugualmente. Non ho un’esperienza diretta, ma ho visto in certi luoghi una tale energia in queste tradizioni popolari che va semplicemente ripulita, però è potente.Il papa è un uomo che ‘sa cantare alla vita’, rispetto a noi cristiani spesso tristi e più devoti al Venerdì Santo che alla Pasqua. E’ questo che ha ridato speranza alla Chiesa”.
“In quei giorni in cui ho predicato su suo invito gli Esercizi Spirituali di Quaresima l’ho proprio notato, con stupore. L’ho ringraziato per l’abbraccio, lui è una persona che abbraccia e da abbracciare. È una persona realizzata, compiuta, emana vita e benessere. Ogni volta che potevo lo abbracciavo. È una persona amica della vita, lo senti che è amico dell’esistenza, delle persone, non ha un atteggiamento giudicante. Se tutti fossimo capaci di essere amici della vita in tutte le sue forme cambierebbe il tessuto del mondo, il colore dell’aria”.
5 Aprile 2018