TV2000 INTERVISTE – Soul: sul ’68 cattolico l’ex brigatista Lanza e il vescovo Bregantini
Sabato alle 12.50 e 20.45, domenica alle 12.50 e 20.30 – Per la serie di interviste sul ’68 cattolico in onda su Tv2000 la conduttrice di Soul Monica Mondo incontra l’ex brigatista Armando Lanza e il vescovo Giancarlo Bregantini.
Armando Lanza era un insegnante di Lettere, nato in una famiglia contadina, ispirato dalla conoscenza di sacerdoti missionari ad entrare in seminario, tra i comboniani. Poi le contestazioni all’università, un lungo viaggio in America Latina, l’infatuazione per la teologia della Liberazione. Al rientro in Italia è un collega ad instradarlo nella lotta armata. Entra nelle Br, è tra i responsabili del sequestro del generale americano Dozier, come basista. Viene catturato, condannato a 12 anni di carcere, ne sconterà otto, per poi lavorare in una cooperativa, fondare una piccola impresa sociale per aiutare disabili psichici, compreso che la rivoluzione non si fa con le armi, mai. Armando ha raccontato la sua storia in un libro, Le scarpe dimenticate (sottotitolo: acqua santa e Brigate Rosse), dedicato alla figlia, appena ragazzina. Un libro catartico, che cerca di spiegare, senza giustificare mai, come l’ideologia abbia preso il posto della fede, abbia ingabbiato l’intelligenza e spinto al male, senza se e senza ma. Un uomo umile, intelligente e schiacciato dal peso di un marchio infame, quella stella a cinque punte che ha insanguinato il paese, ma che è stato capace di rialzarsi, e riconnettersi al mondo, con la presa di coscienza, il lavoro, una famiglia, la speranza.
“Fino a diciassette anni sono stato in alcuni istituti religiosi. Il mio desiderio era quello di diventare missionario nei comboniani, fin da piccolo ero abituato a leggere Il Piccolo Missionario.”
“Credo ci siano molte affinità tra cristianesimo e comunismo… Gesù è stato un rivoluzionario, non violento ma rivoluzionario. Io non mi sono mai ritenuto un violento, anche se è contraddittorio quello che dico perché la scelta che ho fatto è stata senza dubbio violenta, ma la mia partecipazione nelle Brigate Rosse è relativa soltanto al sequestro del generale Dozier”.
In sud America “volevo capire come un paese governato dalla democrazia cristiana fosse una dittatura feroce. Sapevo anche che il vertice della Chiesa con Oscar Romero si era opposto a quella situazione, e ha pagato con la vita. Credo che Romero sia stato molto osteggiato. L’errore mio e di tanti giovani forse è stato forzare pensando l’Italia molto simile a un paese dell’America Latina”.
E in questo contesto Armando Lanza ha rischiato la vita. “Volevo entrare in una chiesa bersaglio quotidiano dei militari. La piazza era piena di gente, una situazione tranquilla. C’erano i militanti del fronte Farabundo Martì che distribuivano volantini sul sagrato a chi voleva avvicinarsi. Quando a un certo punto attraversa la strada un camion militare, e se non mi tiravo indietro sarei stato investito. Dal camion hanno cominciato a sparare ai militanti del fronte. La gente scappava e anche io, con tutte le strade bloccate, finché non mi sono sentito tirare per un braccio dentro un locale con una saracinesca a mezz’asta dove la gente si andava a riparare. E lì ho pensato come si fa a vivere in un paese con la paura!? Questa paura era palpabile”.
Ma perché proprio il generale Dozier? “La nostra era una follia. Io avevo reso disponibile la mia abitazione. Non che mi piacessero le Brigate Rosse del sequestro Moro. Ma credevo stesero cambiando.Se non avessi letto sui giornali che le BR avevano il progetto di cambiare rotta e dedicarsi a problemi di carattere internazionale, la solidarietà fra i popoli, non avrei aderito. Certe cose le ho scoperte poi in corso”.
Lanza non ha mai ucciso nessuno, eppure si sente comunque responsabile anche di tutto il sangue che non ha mai versato. “Ho ‘sposato’ un’organizzazione che ha fatto certe cose, lo sapevo. Di questo mi sento responsabile e il fatto di dire che ho solo partecipato non vuol dire che mi sono sottratto a ciò che è stato fatto prima”.
Giancarlo Bregantini, oggi vescovo di Campobasso, è un sacerdote trentino adottato dal meridione, quello più truce dove domina la ndrangheta. Figlio di contadini, attivista nel movimento studentesco, assiste e partecipa da subito con passione alla rivoluzione prima ecclesiale, con il Concilio: sceglie di essere prete operaio, cappellano di ospedale, del carcere, poi parroco e vescovo bandiera della lotta alla criminalità calabrese, nella diocesi di Locri-Gerace. Un uomo autorevole e attento alla sua gente, che visita di parrocchia in parrocchia con volontà di ascolto, senza negare mai una parola forte, soprattutto per chiedere giustizia e lavoro. Perché quella che sembra un’isola felce, il suo Molise, una regione così piccola, bella, pulita, con un forte senso d’identità, è comunque una terra da cui i giovani fuggono, dove bisognerebbe rinverdire la tradizione del cattolicesimo sociale che ha fatto l’Italia, per non scomparire.
I sogni del ’68 sono nati da una profondità evangelica, come lo stesso Bregantini afferma: “Questi sogni sono nati da una rilettura della Bibbia, dei profeti, e di Isaia in particolare nel capitolo 58, dove la fede si incarna dentro la liberazione degli oppressi, gli sfruttati, l’apertura del cuore ai grandi progetti che sono chiamati il Regno di Dio, una rilettura dello stile di Gesù secondo le beatitudini. Il ’68 è stato anche questo, nei nostri ambienti almeno. Alle spalle c’era una realtà che si sentiva sgretolarsi, non più attuale, un’ impostazione più di legge che di spirito evangelico. C’era il no a un passato rigido, e un’apertura a un modello nuovo di essere figli di questo tempo”.
E nelle lotte padre Giancarlo è stato anche in prima linea, costandogli l’espulsione dal seminario per una settimana. “Sono stato espulso dal seminario per una settimana per aver partecipato a queste iniziative, e sono stato costretto a fare una settimana di esercizi spirituali di supplemento in un piccolo monastero in riva al Lago di Garda”. In quei giorni la figura di Lucia dei Promessi Sposi è stata di compagnia a padre Giancarlo. “Lucia si è sentita comunque capace di puntare il dito contro l’Innominato dicendo: la carità vale più di ogni altra cosa, Dio ascolta e cambia i cuori. Al termine degli esercizi il mio animo così era più sereno, e il clima che ho trovato in seminario di solidarietà e confronto è stato molto bello”.
Ad aiutarlo a non cadere nell’estremismo, la figura di don Antonio Mazzi. “Era mio docente di religione, mi aiutò ad attraversare quei momenti evitando gli estremi della contestazione, mantenendo l’idea di una realtà da rinnovar, sì, ma con saggezza”.
“Il ’68 è diventato un desiderio di verità nella libertà, ma alla fine ha posto la libertà assoluta prima della verità. La verità va ricercata nella libertà. Un vascello ha bisogno di due forze per camminare. Della forza del vento che gonfia le vele e le lancia verso l’infinito, ma per arrivare alla meta serve il timone. La libertà è il vento, la verità il timone. Se spezzo l’uno dall’altro o la nave gira sempre, o non parte. Il punto è mettere insieme il livello educativo”.
Non solo avere dei maestri ha fatto sì che il ’68 per padre Giancarlo non prendesse vie estremiste, ma anche il lavoro come operaio è stato altamente significativo. “ Facendomi capire che c’è una classe operaia. Anche oggi ci sono gli operai, ma non sono più classe, non sono più individualizzati come realtà, e non c’è più quel senso di fierezza e di forza che era propria della classe operaia. Io entrai come un contadino che aveva perso il lavoro. Mi guardarono le mani per capire se ero davvero un contadino. E nonostante le insidie riuscivo ad essere cristiano. Cristo c’è già nel cuore delle persone, va solo riscoperto”.
17 Maggio 2018