Fratelli tutti
Il mondo è in frantumi, la fraternità spezzata dal moltiplicarsi dei muri fisici, economici, legali. Mai come ora l’ecologia – intesa come relazione tra essere umano e natura – è ferita.
Questo tempo di crisi è, però, tempo di sogno.
E’ tempo di mettersi in cammino come discepoli missionari per annunciare con la vita la Buona Notizia del Regno. Un compito affidato a tutti i battezzati come ha insegnato il Concilio Vaticano II e ci hanno ripetuto il Documento di Aparecida e papa Francesco. Donne e uomini in pellegrinaggio sulle vie del mondo: sulle strade affollate delle grandi metropoli come sui viottoli sterrati dei villaggi remoti del Sud del mondo.
Attraverso tre storie, il documentario racconta chi ha scelto di farsi missione, incarnandosi nei popoli e camminando con i popoli e per i popoli del pianeta. Spostandosi dal Brasile alle Filippine, “Fratelli tutti” si sofferma sulle “soglie” fra luogo e non luogo. Fra la realtà, spesso tragica, dei luoghi dove si “ammassano gli scarti” del nostro modello socio-economico, e l’utopia quotidiana di quanti, come i missionari, non si rassegnano alla dittatura dell’esistente ma hanno il coraggio di piantare semi di bene.
Padre Dario Bossi, padre Simone Piccolo e padre Alvar Sanchez sono tre volti concreti e attuali della missione samaritana a cui papa Francesco, in “Fratelli tutti”, non si stanca di esortare il popolo di Dio.
Padre Dario Bossi è un missionario comboniano di origine lombarda che ormai, dopo tanti anni trascorsi in Brasile, si sente brasiliano e inframmezza l’italiano con parole portoghesi. La sua “conversione” all’ecologia integrale è avvenuta a Piqua de Baixo, sobborgo satellite di Acailandia, nel cuore del Maranhao. Un tempo ricoperto di foresta, questo frammento d’Amazzonia è stato divorato dall’estrazione e dalla lavorazione del ferro, estratto nella miniera di Serra do Carajas, la più grande a cielo aperto del pianeta. Negli anni Settanta, intorno alla cava, la dittatura, allora al potere, ha costruito il circuito del ferro. Una maxi ferrovia per portare il minerale fino al porto di Sao Luis e una serie di fabbriche sparse lungo il tragitto per realizzarne la prima trasformazione, la più sporca. La maggior parte delle industrie siderurgiche erano e sono tuttora concentrate a Piquia, quartiere-baraccopoli dove avevano trovato rifugio i contadini privati delle terre di latifondisti locali. Un bacino di manodopera a buon mercato per gli impianti.
Per anni, i residenti hanno sopportato in silenzio i veleni emessi dalle aziende, piazzate proprio dietro le case. L’arrivo di padre Dario e l’avvio del lavoro dei comboniani ha promosso un risveglio nella coscienza degli ultimi. Questi si sono organizzati in associazioni e hanno combattuto un’estenuante battaglia legale con le siderurgiche per ottenere il reinsediamento in un nuovo quartiere, costruito anche con il contributo di queste ultime. Dopo innumerevoli ricorsi, gli invisibili di Piquia hanno visto riconosciuto il diritto a una vita degna. La Chiesa è stata loro accanto per tutto il percorso. E ora partecipa alla festa: le case, ormai pronte, da dicembre saranno consegnate. E nascerà l’utopia possibile di Piquia da Conquista, il nuovo quartiere dei poveri che non si rassegnano.
Padre Simone Piccolo è originario di Mestre. Il suo sogno di diventare missionario lo ha portato ad unirsi ai saveriani e a recarsi nelle Filippine a studiare teologia. Terminata la formazione, è rimasto e ora è impegnato nella parrocchia di Saint Francis, nella sterminata periferia della capitale, chiamata “Metro Manila”. La grande megalopoli asiatica è un concentrato di contraddizioni: le Filippine sono un Paese dove la forte tradizione cattolica deve fare i conti con una povertà tra le più alte del Continente e con l’impatto devastante del cambiamento climatico che pesa come un macigno sulle vite di chi ha meno risorse. A questi ultimi, padre Simone e i suoi confratelli dedicano il loro ministero, basato sull’ascolto profondo, paziente e umile. E sull’accompagnamento quotidiano. Durante la pandemia, proprio da questo dialogo continuo – e non da ricette preconfezionate – è nato il progetto di condivisione del cibo, che si è rivelato fondamentale per tanti. Un enorme tavolo imbandito con quanto ciascuno poteva donare e da cui tutti potevano prendere, è diventato scuola concreta di fraternità da cui è nato ora “urban farm”. Piccoli orti urbani creati con semi donati ai più poveri affinché possano trarne sostentamento in modo degno e sostenibile.
Padre Alvar Sanchez è un instancabile gesuita catalano impegnato nella Delegazione diocesana per le migrazioni di Nador. Un’oasi per quanti, dall’intera Africa subsahariana, bussano, invano, alla porta sprangata di Melilla, enclave spagnola in territorio marocchino da cui la separa una triplice barriera di filo spinato. La “valla”, la chiamano, il primo muro d’Europa per sbarrare il passo a quanti fuggono da guerre e ora, in misura crescente, dalle carestie provocate dal riscaldamento globale. Sulla soglia di Nador-Melilla, la crisi ambientale esce dai report degli scienziati per diventare carne e sangue di donne e uomini. Difficile raccontare il lavoro di Alvar, invisibile quando frenetico. Per poter aiutare i migranti, la Chiesa deve rispettare le rigide norme del Paese che li ospita e a cui Spagna ed Europa hanno appaltato – solo a maggio l’Ue ha sborsato 348 milioni di euro a cui si sommano altri 30 milioni da Madrid – il ruolo di gendarme per frenare il flusso. Un servizio al “limite”, a cui Alvar e la Delegazione non si sottraggono. Con creatività e immaginazione, i gesuiti di Nador raccolgono cibo e medicine per i 4mila disperati nascosti per settimane o mesi fra le gole affilate dei monti Gurugù. Come un ospedale da campo, la Chiesa di Nador ne cura le ferite del corpo e dello spirito, li sostiene nei momenti di scoraggiamento, li rifocilla nelle fasi di stanchezza. Con l’umiltà di chi non ha la pretesa effimera di risolvere il loro dramma, Alvar si fa viandante fra i viandanti, un autentico discepolo della Via.
5 Ottobre 2022