Shakespeare. Know well!
Si può disarticolare, disossare, svuotare e trasformare in ectoplasmi vaganti, tragicomicamente all’inseguimento del proprio gesto significativo, ma ormai fatalmente privo di senso, quei personaggi che noi riteniamo immortali, quelle icone del canone teatrale occidentale con le quali abbiamo creato innumerevoli identificazioni, ovvero i vari Amleto, Macbeth, Otello, Desdemona, Re Lear, Riccardo III…? Si può in pratica non solo “tradire”, ma davvero distruggere Shakespeare senza incorrere in accuse di blasfemia letteraria? La risposta è un sì, spontaneo e adamantino, che scaturisce dopo aver visto alla XXIX edizione del festival di Volterra il primo studio del nuovo lavoro sull’opera del Bardo dal titolo provvisorio Shakespeare. Know well. A idearlo, renderlo come al solito immaginifico e visionario, in pratica a inscenarlo nell’ampio, rettangolare atrio del carcere della splendida cittadina toscana, Armando Punzo, “l’architetto dell’impossibile”, che ha dato corpo a un’utopia creando nell’arco di 27 anni quell’ormai punto di riferimento imprescindibile e luminoso nel panorama teatrale che è la “Compagnia della Fortezza”. È un’isola che c’è, ed è pure felice; una felicità che contagia anche noi che in centinaia, sfidando la torrida afa, per entrare nella casa di reclusione ci sottoponiamo ai ferrei controlli di rito, ci priviamo volentieri di tutti gli orpelli tecnologici e leggeri e leggiadri, senza zavorre, oltrepassiamo cancelli, sbarre, corridoi…
Lo stato d’animo, anche per il critico più disincantato che ha varcato diverse volte nel passato quel confine fra fuori e dentro, è sempre adrenalinico e vertiginoso. A contribuire in modo determinante a questa sensazione eccitante è indubbiamente la consapevolezza dell’ignoto provocato puntualmente dai lavori di Punzo, che anche stavolta non delude. Il colpo d’occhio dello spazio scenico è impressionante: bianco accecante, complice un sole che non dà tregua, più di 300 croci di legno chiaro (destinate ad aumentare nel futuro di questo work in progress) di diverse dimensioni, imponenti e piccine, disseminate, accatastate o appoggiate lungo tutto il perimetro dell’atrio.
“Si viene tutti da lì, non si può prescindere, le croci sono dentro di noi”, confessa Armando Punzo. Segno salvifico? Il punto interrogativo è d’obbligo. Così come dubbi, ipotesi e domande sorgono costantemente durante la visione della performance. Non ci sono volutamente percorsi di senso definiti, solo innumerevoli indizi comunque aperti a soggettive interpretazioni. Il regista, stavolta in veste di artista-archeologo, si aggira alla scoperta di reperti animati, i molteplici personaggi shakespeariani le cui teste emergono concretamente da libroni, a volte interagisce brevemente con essi, raccoglie le loro ossessioni, tenta invano di bere il suo calice e altrettanto vanamente cerca di interrompere l’infinito, reiterato deambulare di una gotica e fantasmagorica Desdemona strappandole il fazzoletto da lei ostentato e creandole un corto circuito interiore. Le visioni si incrociano e si accavallano: due giovani attrici vivono isolate nella loro vanità artistica, altri personaggi invadono la scena con lunghe scale creando una tensione verso l’alto. Su tutto un sofisticato sonoro, creato genialmente da Alessio Lombardi, che amplifica rumori, cadute di bicchieri, o avvolge le azioni con ritmi incalzanti e musiche trascinanti. Alla fine entra un bimbo che spinge con gioia infantile un enorme masso (?), mondo (?)… Punzo, ci svela, aveva pensato a un “Sisifo felice” perché svolge, consapevolmente, un’azione “inutile” e quindi non sottoposta a logiche efficientistiche; ma chi voleva pensare alla nascita di un nuovo mondo guidato dallo spirito libero dell’infanzia è padronissimo di farlo. Se ne esce storditi, confusi e felici, e personalmente con l’idea che Dio si manifesta soprattutto nel silenzio vertiginoso della balbuzie. Sospesi, dunque, proprio come auspicato dal tema del festival quest’anno incentrato sul concetto di “Sospensione”.
di Michele Sciancalepore, fonte Avvenire
30 Dicembre 2015