Il Vangelo di Pippo Delbono
«Il vero e lo stupore. E così è stato. Verità e spiazzamenti non sono mancati, così come le fusioni tra autobiografia e cronaca, dimensione lirica e storica, vita e realtà. E ancora: dilatazioni estenuanti interrotte da emozioni fulminanti, musiche assordanti e silenzi eloquenti o pause imbarazzanti, visioni oniriche e rarefatte o crude e massive, proiezioni intime e soggettive o simboliche e realistiche. Insomma scintille di verità e lampi di sorpresa sì, ma all’interno di un crogiuolo magmatico a rischio smarrimento e annegamento. l teatro deve guidarci alla verità attraverso la sorpresa…». Fermamente convinti della bontà di queste parole del grande regista inglese Peter Brook, abbiamo raggiunto il Teatro Nazionale Croato di Zagabria nella speranza di vivere il vero e lo stupore. E così è stato. Verità e spiazzamenti non sono mancati, così come le fusioni tra autobiografia e cronaca, dimensione lirica e storica, vita e realtà. E ancora: dilatazioni estenuanti interrotte da emozioni fulminanti, musiche assordanti e silenzi eloquenti o pause imbarazzanti, visioni oniriche e rarefatte o crude e massive, proiezioni intime e soggettive o simboliche e realistiche. Insomma scintille di verità e lampi di sorpresa sì, ma all’interno di un crogiuolo magmatico a rischio smarrimento e annegamento. Artefice e demiurgo di questi flussi di marea creativa è stato Pippo Delbono, uno degli artisti più anticonvenzionali della scena internazionale, uno dei più discussi per le sue messinscene che non inscenano storie ma iniettano liquidi percorsi ricchi di pensieri spesso urticanti mai scontati, inoculano dense esperienze provocanti, viscerali come le isterie di un fanciullo, mai banali e artefatte.
Accade, dal Tempo degli assassini del 1987 fino a Orchidee del 2013, che le sue creazioni totali, presentate in più di cinquanta Paesi nel mondo, suscitino sentimenti opposti, commozione o fastidio, adesione o repulsione, di certo non indifferenza. E impassibili non si resta nemmeno di fronte a quest’ultima impresa del regista-performer genovese, evidentemente un work in progress: lo si intuiva facilmente non solo dall’argomento, stavolta davvero incommensurabile persino per un Delbono che nelle questioni delicate si tuffa anima e corpo, ma era anche deducibile dalla situazione caotica, dominata dalla sua furia creativa ed emotiva, durante le ultime prove a poche ore dal debutto mondiale. E il titolo di questa opera (prodotta da Emilia Romagna Teatro Fondazione e dal Teatro Nazionale Croato di Zagabria dove è in scena fino a mercoledì 16 in versione opera e poi a gennaio e febbraio in versione prosa a Roma, Modena e Bologna) è l’altra validissima ragione che spinge fino alla fredda e nebbiosa capitale croata: Vangelo. La musa ispiratrice di questo lavoro, frutto di un travagliato e sincero viaggio nella sua spiritualità, è stata Margherita, la dolcissima mamma di Pippo, fervente cattolica che, mai rassegnata per il distacco dalla Chiesa operato dal figlio e per la sua successiva scelta buddista, lo implora in punto di morte di creare un’opera sul Vangelo per mandare un messaggio d’amore, «indispensabile in questi tempi così duri». È lo stesso Pippo a dichiararlo all’inizio dello spettacolo.
Ma quale è la “buona novella” del suo Vangelo? Non ha alcuna esitazione Delbono a svelarcelo: «La necessità fondamentale di tornare alla parola amore, abusata, strumentalizzata, banalizzata, ma che invece nella sua verità ti permette di morire per l’altro e di rinascere». Bontà, ma non buonismo, è il fine dell’artista che, oltre gli storici performer della sua compagnia, ha dovuto guidare stavolta, non senza oggettive difficoltà burocratiche e incomprensioni culturali, anche l’orchestra, il coro, gli attori e danzatori croati composti rispettivamente di trentacinque, sedici e dieci elementi. E il regista, sia nelle sue esternazioni sul palco o in platea che in privato, non nega il suo calvario, la sua ultima croce, una recente inspiegabile malattia agli occhi che lo ha fatto precipitare nelle zone più buie di se stesso: «È lì però che ho potuto incontrare l’altro e risalire insieme. È lì che ho potuto uccidere il mio inferno. È anche questa la mia buona novella». Un Vangelo che Delbono vorrebbe dedicare «alla figura più rivoluzionaria in questo momento al mondo: quel papa Francesco testimone di compassione e misericordia. Il Papa che lava i piedi dei detenuti è un’immagine per me indimenticabile, direi teatralmente all’avanguardia!».
Piuttosto indietro invece l’armonia dello sviluppo drammaturgico dello spettacolo destinato a migliorare con un lavoro di sottrazione e di maggiore ritmo e chiarezza a cui Pippo Delbono tenta di sopperire facendo gli straordinari con la sua energia e i suoi interventi verbali e coreografici all’interno di una partitura comunque attraversata da citazioni significative e momenti indelebili: dalle frasi evangeliche alle Confessioni di sant’Agostino, dalla struggente Preghiera di Georges Brassens alla Profezia di Pasolini, dalla suggestiva musica originale di Enzo Avitabile ai Led Zeppelin, per finire con un trascinante e gioioso Jesus Christ Superstar. Ma la vita e la verità irrompono prepotentemente con la testimonianza del rifugiato afghano che costringe tutti in platea e sui palchi a recarsi con la mente e con il cuore al campo profughi di Slavonski Brod, a 190 chilometri da Zagabria, un luogo in cui ogni giorno dal 16 settembre passano 10diecimila migranti carichi di bisogni e dolori, un posto dove lo stesso Delbono ha visto il Verbo farsi carne.
di Michele Sciancalepore, fonte Avvenire
18 Febbraio 2016