Martedì in seconda serata
Il Grande Dittatore (ph.Federico Riva)
Il Grande Dittatore (ph.Federico Riva)

Per amore e per audacia. Con la passione per un’arte totale e con il coraggio di chi getta il cuore oltre l’ostacolo. A possedere questi requisiti e spinte emotive sono stati l’attrice e cantante Tosca, Massimo Venturiello, protagonista e anche regista insieme a Giuseppe Marini e il produttore Franco Clavari. In tempi in cui spending review, tagli ossessivi e calcoli pusillanimi sono ancora dominanti questi spiriti ardimentosi hanno portato in scena una folta schiera di interpreti e soprattutto si sono mossi sul crinale dell’incoscienza decidendo di adattare per il teatro un capolavoro assoluto del grande schermo frutto di un’intuizione sublime di quel geniale e impareggiabile artista che nel 1940 mentre la maggioranza di due nazioni venerava come icone i suoi tiranni lui li parodiava alacremente, li sbeffeggiava e ridicolizzava satiricamente svelandone meschinità e miserie attraverso un’opera restata negli annali della storia del cinema: Il grande dittatore, il primo film parlato di Charlie Chaplin.

Va subito precisato che Venturiello col suo adattamento (e anche con la convincente interpretazione dei due protagonisti del film: Hynkel, dittatore della Tomania, lapalissiana e smaccata caricatura di Hitler, e il barbiere ebreo, suo sosia) non tenta giustamente («sarebbe stata una battaglia persa in partenza e inutile», lui stesso ammette) di imitare o scimmiottare l’originale. Piuttosto, pur nel rispetto sostanziale della trama, crea spesso ex novo soluzioni linguistiche e lessicali: “marcia, ammazza, cancelliamo questa razza!” è ad esempio lo slogan terribilmente incisivo cantato dalla “camicie grigie”, ma assolutamente esilarante e senza nulla da invidiare all’originale chapliniano è il grammelot di Venturiello che per il monologo farneticante di Hynkel, quando arringa la folla, disprezza la democrazia e incita all’odio razziale, attinge alle sue conoscenze dei dialetti meridionali. Interessante anche l’idea di sottolineare l’aspetto istrionico del dittatore (antesignana figura del politico cialtronesco e gigionesco manipolatore della comunicazione) che scioglie la sua articolazione verbale ripetendo la locuzione “ebrei-bruni”.

Ma i veri innesti innovativi si creano con la musica klezmer-yiddish e i “songs”, cantati con voce ora profonda e graffiante, ora poetica e struggente da una Tosca in splendida forma e duttilissima nel doppio ruolo di Hannah, la povera fanciulla del ghetto, e della robusta e ruvida moglie in salsa romagnola di Napoloni (un travolgente e irresistibile Lalo Cibelli), esplicita evocazione del duce. Ne scaturisce così un’opera musicale unica nel suo genere perché ricca di contaminazioni; da momenti in stile brechtiano al varietà e persino all’avanspettacolo ma senza cadute di stile. All’interno di una classica scenografia girevole prevedibile ma sempre efficace di Alessandro Chiti si susseguono le sequenze più significative del film tra cui la memorabile danza col mappamondo interpretata magistralmente da Venturiello-Hynkel con un canto, “Voglio, voglio, voglio”, tanto delirante quanto sinistro.

Si giunge così all’epico monologo finale, il toccante e spiazzante “discorso all’umanità” in cui con gli occhi fissi alla cinepresa Chaplin smette di essere personaggio (non è più Hynkel, né il barbiere ebreo, è solo se stesso), si rivolge direttamente allo spettatore e, toccando tutte le corde del suo animo, scuotendo le coscienze (cita anche il Vangelo di S.Luca: «Il Regno di Dio è nel cuore di ogni uomo»), lancia un semplice ma sorprendente appello alla pace universale. Qui però Venturiello, forse per il timore eccessivo di scivolare nella retorica, stempera e taglia volutamente gli accenti veementi depotenziando però al contempo il naturale climax contenuto nell’epilogo. Ma resta intatto l’invito, implicito e potente, a coltivare la memoria di quegli orrori, anche col sorriso che non significa però oblio. E per divertirsi, ma non per dimenticare, si può andare al Teatro Eliseo di Roma fino al 6 marzo.

di Michele Sciancalepore, fonte Avvenire

26 Febbraio 2016