Martedì in seconda serata

chiudi_occhi_web

La sharia, la legge islamica del taglione, la pratica tribale dell’ acidificazione, la mortificazione della donna che vale la metà di un uomo… cose che ci suscitano ribrezzo e aberrazione. Costruire uno spettacolo su tali argomenti forse non sarebbe nemmeno teatro, ma un’ inscalfibile, monolitica denuncia a tesi.

C’ è, invece, uno spettacolo che esalta la quintessenza dubitativa del teatro che smuove, inquieta, fa vacillare certezze. Una pièce che intraprende il «percorso che conduce alla fonte» (questa la traduzione del termine ” sharia”, verbo che indica l’ abbeverarsi) solo per un breve tratto per poi usarla come “pre-testo”, non nega le inevitabili, occidentali reazioni di sdegno della civiltà del diritto consolidato nei confronti di un’ applicazione considerata medievale e disumana, ma va giustamente oltre: ti prende per mano e ti scaraventa nel mondo islamico per illuminarti sulle complesse dinamiche di una società in tumultuosa evoluzione; un viaggio di un’ ora e un quarto che al termine ti lascia disorientato, turbato, ma con la salutare consapevolezza di aver per troppo tempo volontariamente chiuso gli occhi sull’ islam finché la paura non ci ha obbligati a spalancarli.

Chiudi gli occhi, scritto e diretto da Patrizia Zappa Mulas, è non a caso il felice titolo di questa messinscena (fino a domenica al Teatro India di Roma) che sul tema dello sguardo, letterale, figurato, metaforico, simbolico, spalanca innumerevoli, vertiginose voragini. Il testo, profondo e denso, ha come antefatto una vicenda di cronaca dell’ autunno del 2004 a Teheran ma che ben presto fece il giro del mondo: Ameneh Bahrami è una ventiseienne bella, brillante e solare laureanda in ingegneria elettronica che ignora e rifiuta le mire di un ragazzo di campagna, Majid Mohavedi, una matricola rozza e psicopatica che nel suo delirio solipsistico aveva deciso che doveva diventare sua moglie. Il tre novembre del 2004 lui le lancia una bottiglia di acido solforico che colpisce il viso e metà del corpo. Per Ameneh è l’ inizio di un calvario: il volto è sfigurato, le piaghe devastano la schiena e il petto, per un anno non può stare sdraiata, i capelli bruciati fino a metà del cranio, i farmaci antidolori- fici distruggono il suo sistema immunitario, l’ occhio sinistro viene amputato e vani i tentativi di salvare l’ occhio destro incollato alla palpebra. Resterà totalmente e irreversibilmente immersa nel buio. Salto temporale, l’ oscurità viene squarciata da una porta nel fondo che si apre e fa penetrare un accecante taglio di luce. Così, non a caso, ha inizio l’ allestimento.

È il 14 maggio del 2011 e siamo a Barcellona dove ha sede l’ Associazione contro le pene corporali. Un’ ansia attraversa i responsabili dell’ Associazione; non c’ è più tempo da perdere, è iniziato il “countdown”, tra poche ore Ameneh porterà a compimento una sentenza a cui si è appellata, da anni invocata e ostinatamente voluta: versare negli occhi di Majid, il suo aggressore, quaranta gocce di acido solforico. È la sharia, la legge del taglione, occhio per occhio, in questo caso alla lettera. Una rivendicazione che aveva fatto esultare in un primo tempo l’ opinione pubblica occidentale per le sue implicazioni di carattere politico e sociale: la pratica dell’ acidificazione che diventava così reato, un passo in avanti verso l’ emancipazione della figura e del corpo femminile che otteneva rispetto e risarcimento. Ma nessuno in Occidente aveva minimamente ipotizzato che Ameneh volesse realmente andare fino in fondo. Ed è proprio questo meccanismo di ribaltamento tragico continuo da vittima a carnefice che innerva tutta l’ opera, crea spiazzamenti e arrovellamenti e permette all’ autrice di innescare una vibrante e costante dialettica: «Giustizia o vendetta? Sono partita da questa domanda – confessa Patrizia Zappa Mulas – Ameneh è una persona lucida che chiede giustizia o una persona offesa che chiede vendetta? È una novella Antigone che mette in crisi il potere politico di Creonte o decide di appellarsi alla shariaperché è una fedele di Allah?». La risposta non è univoca e richiede un percorso di conoscenza: «Ad esempio – sottolinea la regista si dimentica che nell’ islam non c’ è distinzione fra reato e peccato e nella sharia nessuna figura religiosa o istituzionale può concedere la grazia, solo la parte lesa può farlo e deve eseguire la condanna di sua mano, senza delega al boia».

Uno spettacolo dunque ricco di quesiti e agnizioni, uno sviluppo testuale che, pur con qualche consapevole digressione, coniuga tematiche drammatiche con dinamiche umane e private, una regia priva di orpelli che punta su ritmo e parola, un’ interpretazione dei bravi allievi del Teatro di Roma (Paride Cicirello, Vincenzo D’ Amato, Alice Spisa e Jacopo Uccella) intensa, nonostante qualche accademismo, e un finale coerentemente aperto che regala brividi alla nostra coscienza: Ameneh il 31 luglio del 2011 l’ istante prima di versare, con la sua mano guidata dalla madre, la goccia di acido negli occhi di Majid si blocca ed esclama: «Oggi decido di perdonare perché tutto il mondo ci guarda!».

di Michele Sciancalepore, fonte Avvenire

11 Maggio 2016