Martedì in seconda serata
Macbeth
Luca Lazzareschi e Gaia Aprea – Macbeth – Teatro Mercadante di Napoli

 

«La vita… una favola raccontata da un idiota, piena di rumore e furore, che non significa nulla». È la celeberrima, cupa e impietosa riflessione che Macbeth, il tiranno, spietato usurpatore del trono di Scozia pronuncia nella scena V, atto V, all’ approssimarsi della sua ineluttabile tragica fine. Ma non si può certo affermare che l’ omonima tragedia scespiriana, la più coerente e lineare nel suo sviluppo sanguinario, sia a tutt’oggi una storia priva di senso. Tutt’ altro. La sfrenata ambizione, la brama di potere che divora il vassallo di re Duncan di Scozia, dopo aver ricevuto l’ ambigua e velenosa profezia di tre streghe, e che lo porta a progettare e a compiere, insieme alla sua Lady, il regicidio per salire al trono, non sono pulsioni estranee agli eventi della nostra contemporaneità e perfino la nostra routine quotidiana rischia l’obnubilamento della ragione, l’ avvelenamento della morale e il disorientamento di ogni bussola etica quando viene bombardata da messaggi tanto suadenti quanto fuorvianti tipo «tutto il mondo è intorno a te» e «il lusso è un tuo diritto».

Lo sa bene Luca De Fusco che, nell’ allestire al Teatro Mercadante la sua versione della tragedia del bardo per la nona edizione del Napoli Teatro Festival Italia e che aprirà la stagione dello stabile napoletano il 26 ottobre, va anche oltre optando per una messinscena visionaria ambientata nella testa del protagonista. La dimensione teologica e filosofica del testo non viene negata, la questione ancestrale del male che si infinge e dissimula, truccando il demonio in angelo e il brutto in bello, continua a innervare tutta l’opera, ma è l’ aspetto psichiatrico a prevalere. Macbeth e signora sono in sostanza due malati di mente, molto probabilmente con un tarlo patologico nel loro passato di coppia. È per questo che non hanno gli anticorpi per contrastare il virus malefico dell’ ambizione inoculato dalla profezia delle streghe, a differenza del generale Banquo che non si fa sedurre dalle apparizioni fantasmagoriche. Ed è sempre a causa della loro patologia e delle basse difese immunitarie che cedono al peso dei rimorsi e la loro mente viene sconquassata dai fantasmi. Un’ impostazione questa sicuramente intrigante, solo che ci si aspetta poi di entrare pienamente nei meandri tortuosi e misteriosi della mente e ciò raramente avviene. E non bastano a tale scopo gli affascinanti primi piani proiettati sull’ormai immancabile velatino. Come è tipico della sua cifra registica De Fusco, infatti, attua una sapiente sperimentazione e contaminazione con una dimensione prettamente cinematografica; la sua è una doppia regia, teatrale e filmica, degli attori si esaltano i volti e la micro-mimica come al cinema, c’ è una costante dialettica fra proiezione e tridimensionalità teatrale, sempre funzionale, stucchevole solo quando appaiono barbagianni, gufi e vari rapaci notturni a fare da “voltapagina” o quando si scimmiotta in scena lo slow motion con i duelli al rallentatore. Il risultato complessivo è una gabbia, per gli interpreti e per gli spettatori. Si può concordare con la scelta di non voler “attori di pancia” e di bandire il mimetismo naturalista, ma non al punto di inibire totalmente ogni guizzo dionisiaco e costringere l’impeccabile, superba coppia protagonista, Luca Lazzareschi e Gaia Aprea, a fare attenzione a dove mettere i piedi per non rischiare di uscire dall’ inquadratura, a maggior ragione quando si vuole far parlare la psiche. Si può apprezzare la maniacale precisione estetica, dote più unica che rara in tempi di dilagante approssimazione artistica, ma non al punto di imprigionare la libertà immaginativa della platea. Luca De Fusco, quindi, in preda a un “rumore e furore” registico che comunque significa molto più che qualcosa.

di Michele Sciancalepore, fonte Avvenire

23 Giugno 2016