Martedì in seconda serata

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È stata un’impresa ardita portare sulla scena Ragazzi di vita, il primo romanzo pasoliniano del 1955, una serie di racconti che avevano come unico fil rouge «l’urlo e il furore», per citare William Faulkner e ancor prima Macbeth, di una folata di adolescenti delle borgate romane che, come falene impazzite, si lanciavano istintivamente con vitalità furente contro la luce accecante dei loro bisogni primari di cibo e di felicità. È stata una missione spavalda e impavida decidere di evocare su un palcoscenico paurosamente vuoto i luoghi doviziosamente descritti nel romanzo e picarescamente invasi dallo sciame dei “borgatari” che, con lo stesso inarrestabile, disperato, frenetico slancio di un’onda migratoria, si sbattevano nel dopoguerra dalla periferia al centro della Capitale: dal Tiburtino al Fontanone, da Centocelle a Piazza di Spagna, dalle rive del Tevere ai bagni del Lido di Ostia.

Ci è voluto un coraggio al limite dell’incoscienza per proporre un dialetto che ha evitato la facile scorciatoia della cadenza romana e ha trasformato gli attori in strumento vocale di una lingua espressionista e non neorealistica, lirica e non colorita. L’ardimento è stato premiato e il merito indubbio va ad Antonio Calbi, il direttore artistico del Teatro di Roma che ha prodotto lo spettacolo (Ragazzi di vita in scena al Teatro Argentina fino al 20 novembre), a Emanuele Trevi che con prodigioso istinto di rabdomante di nuclei teatrali è stato in grado di estrarre una sintesi drammaturgica significativa e incisiva da un’opera dai mille rivoli narrativi, a Massimo Popolizio che con urlo creativo e furore registico ha guidato i diciannove ragazzi, che andrebbero nominati uno per uno, capitanati da Lino Guanciale a cui viene affidato l’oneroso compito di un atipico e bipolare narratore che come un drone sorvola e contempla il brulicante vissuto e tessuto metropolitano per poi scendere in picchiata come un falco e interrompere o descrivere le emozioni, riavviare l’azione o istigare le pulsioni. È al contempo dentro e fuori e assolve efficacemente la funzione demiurgica di rendere immaginifico il verbo pasoliniano, una sorta di regista in campo.

All’inizio si prova un certo disorientamento provocato dalle sonorità di una lingua dialettale inaspettatamente alta e densa, da gestualità e tonalità sopra le righe, da qualche lungaggine narrativa, ma poi si viene rapiti dalla serrata dialettica di un’interpretazione epica e lirica, straniata ed empatica, in prima e terza persona e soprattutto da un vero teatro di parola con il semplice ausilio di un tendone o di un paio di scarne ma duttili macchine teatrali quali una zattera o una scalinata. La suggestiva e cruda sequenza ai bagni di Ostia, quella vibrante e corale sul tram o la scorribanda sull’Aprilia, sono solo alcune delle esemplari traduzioni sceniche che esaltano la potenza evocativa del teatro. Il racconto della prostituzione maschile, che all’epoca costò una provvisoria accusa di oscenità all’opera di Pasolini, Popolizio lo sintetizza creando un’alchimia di leggerezza e crudezza, gaiezza e struggimento senza mai scivolare nel quadro pittoresco, tantomeno nella banale volgarità. Rispettato inoltre l’emblematico inizio e finale del romanzo che si apre con il generoso, spassionato slancio d’amore proletario di “Riccetto” che salva la rondine nel Tevere e si chiude con l’inerzia e indifferenza dello stesso che ignora il piccolo Genesio che affoga nelle acque del fiume. Parabola del morale regresso del nostro borghese progresso? Non lo nega Massimo Popolizio ma non ci nasconde neanche la compassione, la pìetas cristiana che Pasolini nutriva e che lui stesso ha condiviso per «questo gruppo di infelici che lottavano e agognavano per un piccolo posto in Paradiso».

di Michele Sciancalepore, fonte Avvenire

31 Ottobre 2016

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