Martedì in seconda serata

Giuseppe Sartori in "28 battiti"

Quattro aghi infilati, due nelle braccia e due nelle gambe. Altrettanti rivoli di sangue scendono lungo le membra. Lo sguardo sereno, disteso, illuminato. Un’immagine che rimanda inevitabilmente all’icona di san Sebastiano trafitto dalle frecce. Ma l’evocazione cercata e un po’ forzata finisce qui. Se il martire cristiano si immolava e si lasciava trafiggere per difendere strenuamente la fede in questo caso il supplizio è autoindotto e serve non per abbracciare un’idea ma per liberarsi da un idolo, uccidere una seduzione che si chiama successo, ossessione subdola e diffusa ai nostri tempi che si declina in varie desinenze, eterna bellezza e giovinezza, prestanza e prestazione estreme, fame di fama e vittoria, ma che ha un’unica radice, il corpo. Il fisico rappresenta quello di un atleta, le quattro siringhe penzolanti hanno inoculato l’eritropoietina, al secolo “epo”, il farmaco che aumenta l’ematocrito, il numero dei globuli rossi, la quantità di ossigeno nel sangue, l’efficienza muscolare, il risultato della performance, elimina la stanchezza… in una parola: doping. La scelta dell’uso consapevole della sostanza dopante è finalizzata però non alla vittoria che tutti pretendono e invocano, bensì alla liberazione di ogni pressione, doparsi per farsi squalificare, farsi del male per ricominciare, o finalmente iniziare, ad amarsi un po’… Questa in sintesi la parabola di “28 battiti”, in scena fino al 20 novembre al Teatro India di Roma. Il titolo si riferisce alla tipica brachicardia degli sportivi agonisti che hanno una frequenza cardiaca solitamente inferiore alla norma; la storia in forma di monologo invece ha sullo sfondo la nota vicenda di Alex Schwazer, il marciatore altoatesino oro alle olimpiadi di Pechino, poi squalificato per doping da lui ammesso con un pianto in mondo visione, poi rinato più forte di prima e infine nuovamente fermato stavolta in modo molto sospetto e oscuro.

Il personaggio in scena ricalca evidentemente il “background” dell’atleta italiano ma la scelta di ricorrere all’artificio chimico per scardinare la gabbia asfittica di un sistema alienato e alterato, per fugare l’incubo di un rendimento sempre più senza limiti, la decisione di doparsi per smascherare quello che tutti sanno ma che nessuno per omertà, paura o convenienza denuncia, la risoluzione di autodenunciarsi e tirarsi fuori per ricominciare a marciare non per vincere, ma per vivere, può sembrare macchinosa e astrusa o al contrario naïf, ingenua e favolistica. E in parte lo è. Parzialmente anche il testo di Roberto Scarpetti suscita qualche perplessità: in termini prettamente sintattici è un flusso costante di coordinate senza subordinate che rischiano di depotenziare e appiattire i nodi problematici, i dubbi e i tormenti che caratterizzano la narrazione. Di contro però la scrittura possiede al contempo un dono innegabile e prezioso: è lineare, asciutta, chiara, diretta, lapidaria e incisiva. E poi ci pensa Giuseppe Sartori a incarnarla con un physique du rôle senza eguali, con un’interpretazione fisica e verbale magistrale, in cui il corpo, senza virtuosismi barocchi, si mette al servizio della parola. Anche la regia dello stesso autore è funzionale al teatro di parola con un uso efficace delle luci e degli effetti sonori e di proiezioni video con immagini di braccia che si tendono, pugni che si aprono, membra attraversate da filmati di un mondo e una mondanità che ci invade, ci permea, esalta le nostre sembianze e deprime la nostra essenza.

di Michele Sciancalepore, fonte Avvenire

14 Novembre 2016