Martedì in seconda serata

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«Giudicatemi non come attrice disabile ma come attrice tout court». Questa l’esplicita richiesta di Antonella Ferrari da due anni in tournée con Più forte del destino – tra camici e paillette la mia lotta alla sclerosi multipla, adattamento teatrale del suo successo editoriale omonimo. Dopo averla vista recitare sul palco per ottanta minuti, dopo averla vista ballare con o senza le sue stampelle leggiadramente variopinte, perché la danza non è solo acrobazie ma può essere estremamente comunicativa anche solo con passi accennati e armoniche mimiche, potremmo concludere che Antonella Ferrari è un’attrice dotata di perfetti tempi comici, di rilevante presenza scenica e in grado di passare con agilità dal registro brillante a quello drammatico senza soluzione di continuità. Esaudita così, sia pur in poche righe, l’istanza della signora Ferrari.
Ma come si fa a limitarsi a una scarna e arida analisi critica quando ci si trova di fronte a una rara e preziosa fusione di arte e vita? Come ci si può ridurre a fornire poche indicazioni tecniche quando si assiste a un distillato di verità ad altissima gradazione emotiva? Non si può, non si fa. E allora non possiamo ignorare che nel monologo di Antonella Ferrari non c’è una sola parola che sia casuale e che, come recita l’annuncio prima dello spettacolo, ogni riferimento a fatti e persone è assolutamente voluto e veritiero. Non possiamo non restare incantati dalla forza e dall’energia vitale e spirituale di un’artista che, per dirla con le parole di Goethe, «ha imparato dalla malattia molto di ciò che la vita non sarebbe stata in grado di insegnarle in nessun altro modo», una donna che ha sempre ribaltato l’auto-commiserevole «ahimè» in un esemplare, generoso e positivo «hai me!». Non possiamo non ammirare, inoltre, il coraggio dell’attrice milanese, ambasciatrice dell’Aism (Associazione italiana sclerosi multipla), che non ha alcuna remora ad esternare il suo calvario di paziente alle prese con una malattia per troppi anni definita «ndd», ovvero di «natura da determinare», una via crucis di analisi ed esami dolorosi (tac, pet, elettromiografia, rachicentesi), ricoveri inutili, sintomi inquietanti (cistite emorragica, denervazione e rigidità muscolare, diplopia, scosse alla schiena, contrazioni, tremolio) per poi sentirsi dire… «lei è stressata». Non possiamo non apprezzare, infine, l’audacia e l’arguzia di un’artista che svela aspetti poco noti sul suo «nemico», la sclerosi multipla, appunto, che spesso è subdolamente latente e silente, e che riesce a debellare con ironia stereotipi e luoghi comuni sulla disabi-lità: ‘chi l’ha detto – afferma con gioiosa schiettezza Antonella Ferrari – che il disabile debba essere sciatto, triste, introverso e arrabbiato e non possa essere invece sorridente, elegante e seducente?’. E ancora sorprendente franchezza quando confessa i segreti del suo successo non solo professionale ma personale nella lotta alla sclerosi: la famiglia, l’amore del marito e la sua fede cattolica che le ha sempre fatto avvertire il sostegno paterno di Dio e che le ha insegnato a ribaltare la preghiera egoistica in un ‘sia fatta la Tua volontà’.
Ribaltamento che non è rassegnazione ma conoscenza di un amore autentico come quello che traspare nel finale dello spettacolo con la struggente dedica che l’attrice rivolge al papà scomparso. Lacrime e applausi. Eccoti accontentata, signora Ferrari, con una critica in cui, però, la mente ha cercato le parole, ma il cuore ha trovato la chiave di lettura.

di Michele Sciancalepore, fonte Avvenire

 

15 Dicembre 2016