Martedì in seconda serata

calenda pirandello

Centocinquanta anni e non sentirli. Sempreverde, sempre illuminante e rivelatore delle nostre contemporanee miserie, nonostante ci accingiamo a celebrare ormai un secolo e mezzo dalla sua nascita, il 28 giugno del 1867, nonostante questa sua opera in particolare, Il piacere dell’onestà, in scena fino a domenica al Teatro Mercadante di Napoli, sia a tratti verbosa e concettosa e avvitata su se stessa, nonostante un allestimento di Antonio Calenda non sempre ispirato e benché chi frequenta Luigi Pirandello sa bene in partenza di correre il rischio di annaspare tra i vortici della danza macabra fra pazzia e finzione ed è perfettamente consapevole che dovrà imbattersi inevitabilmente nei rovelli, dannatamente cari al drammaturgo di Girgenti, quali il tradimento, il perbenismo e l’eterna aspra dialettica fra maschera e identità, forma e sostanza. Eppure Il piacere dell’onestà, composta nel 1917 e ispirata alla novella Tirocinio (1905), pur non sottraendosi a nessuna di quelle prevedibili tipicità, pur accusando uno sviluppo drammaturgico che a volte segna il passo, fa davvero rabbrividire per la sua dimensione profetica che getta una luce sinistra e penetrante sulle attuali dinamiche alla base delle nostre meschine ruberie, deprimenti corruzioni ed esteriori convenzioni. L’incipit narrativo è semplice, al limite del banale: bisogna porre rimedio per evitare uno scandalo coniugale, metterci una pezza per “salvare l’apparenza”. Le conseguenze del fallace rammendo sono invece vertiginose e degne di un ribaltamento da tragedia greca.

È la storia di Angelo Baldovino, un uomo dal passato poco onorevole, fallimentare e dissoluto, una mezza figura disincantata e disillusa, senza spiccate qualità ma con una forma mentis cartesiana e argutamente filosofica, il quale accetta, in cambio di denaro, di prendere in moglie Agata, una giovane donna ingravidata dal marchese Fabio Colli, regolarmente coniugato e icona di un’aristocrazia decadente, ipocrita e inetta. Un matrimonio dunque di facciata per evitare l’onta, per imbastire un’onestà di superficie e consentire a tutti, sotto l’ombrello di una unione vuota ma legittima, di continuare a coltivare i propri interessi. Calcoli frutto di una morale gretta e conformista che non tengono conto però del moto d’orgoglio dell’omino Baldovino il quale «sposa per finta una donna, ma sul serio l’onestà» e scopre invece il senso di una missione salvifica che potrà riabilitare e riscattare la sua dignità. Decide dunque di divenire un paladino dell’onestà, adamantino nei suoi comportamenti, rispettoso e premuroso con la giovane mamma, abile nel rispedire al mittente una trappola che il marchese gli aveva teso, ormai indispettito dal suo rigore assoluto e da Agata a sua volta non più disposta a concedersi furtivamente e colpevolmente ma sempre più affascinata e contagiata dalla purezza del marito e desiderosa di una vita cristallina e senza sotterfugi. Alla fine il matrimonio nato per finta diverrà l’unica cosa vera e autentica in quel microcosmo di falsità e una volta tanto la sembianza aderirà alla sostanza, l’apparenza all’essenza.

Sembra una favola fluida e gradevole ma va ribadito che il testo è arduo e ripetitivo, la regia di Calenda poco dinamica (chapeau però a una scenografia affascinante ed elegante), la recitazione complessivamente accademica. Ma il genio di Pirandello e l’interpretazione da Oscar del teatro del navigato Pippo Pattavina, superbo protagonista, danno senso alle due ore trascorse in platea.

di Michele Sciancalepore, fonte Avvenire

18 Gennaio 2017

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