Crippa per Stein si cala nei deliri di Riccardo II
«L’amore, un gioiello raro in questo mondo di odio totale». Sporadici i sentimenti spassionati e gratuiti, inusuali le dedizioni che non siano viziate da calcoli e interessi. Dietro i pomposi e formali proclami verbali che ostentano affetto e fedeltà c’è solo un vuoto pneumatico popolato da brame e trame egoistiche. Nulla è più assoluto, tutto è relativo. Di tutto ciò si rende amaramente conto quando, ormai all’epilogo della sua pur breve vita, detronizzato, in prigione e in procinto di essere assassinato, l’ultimo dei Plantageneti, re Riccardo II, sancisce nel suo lucido delirio, attraverso quella paradigmatica frase sulla rarità del vero amore, la fine del suo regno, della sua sacralità e in sostanza dell’era medievale. In realtà quelle poetiche, apocalittiche parole, gliele ha messe in bocca il Bardo quasi tre secoli dopo, alla fine del ‘500 quando il suo incommensurabile genio, in questo caso un po’ irretito dal groviglio delle affastellate vicende storiche, crea La Tragedia di Re Riccardo Secondo. Oggi quei versi li sta incarnando Maddalena Crippa. Sì, una donna, nessuna stravaganza, anzi una perfetta aderenza a un personaggio uterino nelle sue pulsioni e nelle sue decisioni, che regna sul crinale della dissolutezza e spregiudicatezza, tra aneliti di pace e impeti guerrafondai, diplomazie e colpi bassi. A guidare l’impareggiabile attrice brianzola il solito Peter Stein, il regista berlinese che ancora una volta regala un’esemplare prova di rigore ed essenzialità sopperendo agli evidenti deficit di spazio e acustica del Teatro Nazionale di Roma che ospita l’allestimento fino a domenica. Richard II di William Shakespeare, dunque, senza alcuna pindarica pretesa di attualizzazione perché attuale lo è già di suo, con l’imponente e geometrica scena di Ferdinand Woegerbauer ispirata all’austerità del tutto, senza musica (a parte quattro gong e qualche rullata di tamburi) e quindici calzanti interpreti su cui svetta la Crippa. Ma perché il demiurgo tedesco ha deciso di impelagarsi in un testo poco frequentato? La risposta è nel plot che condensa in tre ore una manciata di anni pullulanti di ingarbugliati e altalenanti ribellioni, ribaltamenti, rovesciamenti di fronti e di alleanze che vedono protagonisti in primis Riccardo, che esercita la sua sovranità in modo arbitrario e odioso e, quasi come precursore dell’empietà di Re Lear, si macchia di svariate colpe quali l’appalto del regno e l’appropriazione indebita dell’eredità di suo cugino Bolingbroke, il deuteragonista appunto, che da esiliato torna, lo spodesta di scettro e corona e diventa re Enrico IV. Insomma un caleidoscopio di lotte e ambizioni in cui si susseguono ridde di reciproche accuse di tradimenti con relativi guanti di sfida gettati per terra, delazioni, complotti, sommarie esecuzioni e repentine concessioni di perdono. Tutto concorre a venare di farsesco i drammatici affanni di un’umanità attanagliata dalla solitudine e dalla smania del potere.
di Michele Sciancalepore, fonte Avvenire
15 Dicembre 2017