Martedì in seconda serata

Si può far ridere con l’Amleto, la tragedia più cupa e fatale di William Shakespeare? Se la si butta in farsa e si tesse una grana grezza si provocherebbero risate fatue e vacue. Più arduo è riuscire a far ridere la mente oltre che la pancia per quasi 50 minuti penetrando il nucleo del personaggio più rappresentato nella storia dello spettacolo e riproponendo il Principe di Danimarca non come icona del dubbio bensì quintessenza della crisi di identità. Impresa tre anni fa riuscita alla compagnia Punta Corsara col loro chiassoso e struggente Hamlet Travestie in chiave burlesque. Stessa via stretta è stata intrapresa da un’altra giovane compagnia, L’Uomo di Fumo, che ha presentato al Teatro India di Roma Reparto Amleto meritatamente pluripremiato nel 2017.

Un’alchimia vincente e convincente, infatti, caratterizza lo spettacolo di attori under 25: perfetta padronanza del testo scespiriano ma anche ampia conoscenza della critica letteraria, sapiente contaminazione e dialettica fra alto e basso, citazioni colte e linguaggio casereccio, eleganza petroliniana ed evocazioni plebee all’Alvaro Vitali, cultura pop e filosofia neoplatonica con un Amleto che salta dai passi dell’alligalli al paradigma della condizione esistenziale dell’uomo. Si percepisce immediatamente la vis comica istintiva degli attori in scena, ma ancor più la loro visus comica, ovvero la consapevolezza delle tecniche quali ritmo, intonazioni, gestualità e mimica. Ma tutto ciò si poggia su una base solida e coerente: un testo vibrante, incalzante e paratattico, frutto di un’idea originale.

Amleto è un adolescente frastornato e inizialmente anche un po’ sedato su una carrozzina e sorvegliato a vista al pronto soccorso perché ritenuto soggetto «in un pericolosissimo stato psicotico» incapace di distinguere il bene dal male e in procinto di esplodere. Una diagnosi evidentemente scaturita dall’ iniziale isteria del ragazzo presentatosi come principe di Danimarca che sosteneva di aver visto il fantasma del padre e minacciava di uccidere lo zio usurpatore del trono. In realtà si tratta solo di un personaggio confuso e infelice perché sfibrato e sfinito dalle innumerevoli, contraddittorie, astruse e cervellotiche interpretazioni costruite sulla sua persona in quattro secoli di regie: «Mi mettono in scena con la gorgiera, col teschio in tutù persino nudo. Non capisco più le mie priorità». Ma soprattutto è il giovane incapace di assolvere a un compito mostruoso e infinitamente più grande di lui.

Nulla di più vicino all’originale del “divin bardo” e ne è perfettamente consapevole Lorenzo Collalti che ha scritto il testo e curato la regia. Lo spunto tematico dunque è molto semplice ed essenziale, così come l’allestimento. D’altra parte se al visionario, strampalato nobile di Elsinore, interpretato da Luca Carbone, si affiancano uno pseudosapiente dottore, Lorenzo Parrotto, e due cialtroni e scanzonati portantini, uno trasteverino e l’altro barese, rispettivamente Flavio Francucci e Cosimo Frascella, l’effetto spassoso è assicurato. Non si rinuncia a una venatura di tristezza con la solitudine finale di un Amleto, cosciente di essere solo finzione, condannato all’inazione e al silenzio, fuori dal mondo e fuori luogo persino in ospedale.

di Michele Sciancalepore, fonte Avvenire

16 Gennaio 2018