Martedì in seconda serata
I giovani attori de “I Nuovi”, al debutto al Niccolini di Firenze nella “Mandragola” di Machiavelli.

Uno stupefacente ossimoro. Uno straordinario strappo alla regola. In un paese afflitto da senilità nella direzione degli apparati e nell’attaccamento alle poltrone, da vetuste gerarchie nei poteri decisionali e da pervicaci radicamenti nel controllo della sala dei bottoni, insomma in quello che evidentemente «non è un paese per giovani», a Firenze, in via Ricasoli 3, la Fondazione Teatro Toscana ha spiazzato tutti e ha creato una magnifica eccezione affidando la gestione del più antico teatro della città, lo storico, barocco Niccolini, a sedici attori, quasi tutti neodiplomati della “Scuola Orazio Costa”, ma tutti rigorosamente under 30. E soprattutto tutti impegnati a far tutto e a gestire ogni aspetto della complessa macchina teatrale: dalla direzione artistica all’amministrazione, dalla tecnica alla pulizia, dall’ufficio stampa alla maschera in sala. Non vi è differenza di ruoli, né struttura piramidale, bensì una pura piattaforma democratica in cui, come ci confessano “I Nuovi“, così si sono denominati questi giovanissimi ed entusiasti artisti, si sacrifica la celerità e il piglio decisionale di una figura di leader sull’altare della più faticosa e lenta collegialità. Ma quando la scelta viene finalmente partorita, quasi all’unanimità, la soddisfazione, la consapevolezza e il senso di responsabilità sono garantiti, ci dicono in coro. Insomma una sorta di Repubblica platonica o un’Utopia di Thomas More, ma con una effettiva concretezza anche in termini prettamente economici: a ognuno degli attori coinvolti infatti viene corrisposta una borsa di studio mensile per tre anni e le imprese del territorio sono vivamente invitate a investire in questo progetto che può portare effettivi benefici pecuniari.

In pratica l’appello è: “adotta” un giovane attore perché potrai godere dei recenti vantaggi fiscali. Non manca poi come in tutti i microcosmi organizzati anche un cartello-manifesto: Per un attore artigiano di una tradizione vivente. Sei rigorosi punti in cui, oltre a esplicitare la parità dei ruoli, l’autogestione nella realizzazione di costumi, scene e apparati, il primato del teatro di parola attraverso la lingua e la letteratura italiana, si pone in evidenza il rapporto fra i “giovani e i maestri”. Ed è qui che l’ossimoro citato in apertura acquista ulteriore valenza e trova la sua più eclatante ragion d’essere. È così che i due estremi, l’antico e il contemporaneo, la verde speranza e la saggia esperienza, l’under 30 e l’over 60, si incontrano in un reciproco e proficuo scambio.

Sono “Nuovi”, pertanto, ma non presuntuosi, né tantomeno sprovveduti questi ragazzi desiderosi di farsi guidare sulla scena da sapienti artisti del calibro di Gianfelice Imparato, Glauco Mauri, Andrée Ruth Shammah, Beppe Navello e Marco Baliani. Ed è proprio quest’ ultimo, il mito del teatro di narrazione, che con il suo epico Kohlhaas cavalcò «in groppa a una sedia», ma anche il grande orchestratore di spettacoli corali, che sarà il primo a portarli sulle tavole del Niccolini da oggi fino al 22 aprile con la commedia più pungente e spietata del Rinascimento italiano: La Mandragola di Niccolò Machiavelli. Un mese di prove, con esercitazioni prima di tipo relazionale: «Quando lavoro con gli attori – ci svela Baliani – il primo problema è riuscire a fargli sentire l’urgenza di porsi domande su ciò che li circonda. Molta parte del tempo viene impiegato a far sì che riaprano i sensi». Poi un fiume di improvvisazioni corporee sui temi enucleati dalla commedia in questione: la lussuria, l’avidità di denaro e di potere, la truffa, la subdola persuasione, lo scaltro compromesso. Sperimentazioni e ricerche fisiche che hanno dato luogo in scena a contrappunti mimici e coreografici illuminanti, uno degli aspetti più convincenti dell’allestimento.

A seguire un intenso lavoro sulla parola tradita e “tràdita”, ovvero traghettata alle nostre contemporanee orecchie epurata da riferimenti lessicali datati, ma senza perdere l’originale vis verbale. Per giungere naturalmente alla presa dei personaggi. E qui casca il “nuovo”: «La loro difficoltà maggiore, come del resto di tutti quelli che si affacciano al teatro – spiega Baliani – è di riuscire a fissare l’intuizione o la giusta chiave trovata qualche istante prima e che puntualmente gli sfugge dalle mani». Ma soprattutto la montagna più alta da scalare è, ne siamo stati testimoni diretti a poche ore dal debutto, l’apprendimento della gestione del tempo e dell’ascolto che per l’attore è basilare ed è un problema anche di natura sociologica: «Queste nuove generazioni sono sempre meno capaci di rispettare il vuoto e il silenzio – ammette il regista – e ormai la loro comunicazione è altra e molto più frenetica rispetto alla nostra. L’interprete, invece, vive pause piene di attesa, una quiete attiva, come il riposo di un felino».

Ma bisogna anche riconoscere che “I Nuovi” si rialzano subito e, divisi in due squadre, si alternano nella messinscena dimostrando fervente passione, grande coesione e discreta presenza scenica. Certo, alcune acerbità sono evidenti ma la coerenza dello sviluppo drammaturgico, tra i più articolati del rinascimento, viene rispettata grazie anche a soluzioni registiche tanto semplici quanto incisive. E non è cosa da poco visti gli infingimenti, mascheramenti, raggiri, inganni e tradimenti che innervano l’intreccio della Mandragola, definita spesso impropriamente una «beffa erotica dal sapore boccaccesco»; in realtà, a 500 anni dalla sua creazione, è piuttosto una sorta di profezia sugli odierni edonismi, arrivismi, opportunismi o una feroce, lucida e chirurgica, più che beffarda, disamina sulle oscurità dell’animo umano. E non inganni il prologo volutamente ironico che accenna a «van pensieri fare el suo tristo tempo più suave». Non c’è nulla di leggiadro, è un buco nero densissimo e impietoso di esistenze possedute ognuna dal suo personale demone, dall’infoiato amante Callimaco, alla ruffiana Sostrata, madre della bella Lucrezia la cui virtù viene piegata e alienata alla fine dalla stoltezza del marito Nicia, dalla scaltrezza di Ligurio e dalla cupidigia di un “frate mal vissuto”. Non è un caso che il regista Baliani apra e chiuda la sua Mandragola con due situazioni immaginifiche geniali, quasi due istantanee che non sveliamo ma che immortalano profondamente l’amara cupezza che si cela dietro l’apparente leggerezza.

di Michele Sciancalepore, fonte Avvenire

11 Aprile 2018