Martedì in seconda serata
Beatrice Fazi in una scena di “Cinque donne del Sud”

Cinque aggettivi per due occhi, quelli di Beatrice Fazi: penetranti, scaltri, dolci, vividi e spiazzanti. Ma questi stessi attributi valgono anche per gli sguardi che l’attrice romana di origine salernitana sta interpretando per una platea sempre gremita ed entusiasta al Teatro7 di Roma fino a domenica. Sono gli occhi di Cinque donne del Sud, l’ultimo lavoro di una sensibile e dinamica drammaturga, Francesca Zanni, in grado di fondere, in testi come Tango, sui figli dei desaparecidos, o in La carezza di Dio, sul genocidio ruandese, la disamina sociale con la declinazione dei sentimenti. Stavolta al centro dell’indagine della scrittrice c’è la femminilità tout court, coniugata attraverso cinque figure di donne di altrettante generazioni, in un viaggio lungo più di 130 anni, dal 1887 al 2018, dal meridione al Nuovo Mondo, da Roccadaspide alla Big Apple, passando per Roma e Milano.

È una cavalcata fra avvenimenti storici e spaccati sociali, dall’emigrazione degli italiani in America al femminismo delle suffragette, da Woodstock alla “Milano da bere”, dalla vita aspra della contadina meridionale madre di 11 figlie a quella iperconnessa della sedicenne nativa digitale. Ma è anche uno spregiudicato solcare i mari dei luoghi comuni. Una scelta, però, voluta, a cui si addice perfettamente l’intuizione del drammaturgo austriaco Hofmannsthal secondo cui “la profondità va nascosta in superficie”. Di certo un unico tema: “fragilità il tuo nome è donna”, ma, e che il bardo non se ne abbia a male, è anche la tua forza e il tuo fascino. Tutto ciò la Zanni, che ne ha curato anche la regia, lo ha sapientemente cucito, grazie anche ai costumi di Fabrizia Migliarotti, alle proiezioni di un opportuno repertorio storico e al lavoro sulla lingua dialettale di Grazia Serra, addosso alla Fazi che, dopo tanta fiction televisiva e altrettanti ruoli comici in teatro, si è, con una naturalezza sbalorditiva, lanciata in un poderoso monologo di novanta minuti.

Perché questa impresa?
«Ho iniziato questo mestiere a 14 anni, ho 45 anni suonati, ho avuto la grazia di una famiglia, porto avanti l’impegno nell’evangelizzazione, ho confessato a migliaia di persone la mia conversione nel libro Un cuore nuovo, insomma mi sentivo matura per misurarmi con una missione artistica che mi facesse davvero faticare. Ho riposto questo mio desiderio nelle mani di Dio e ho incontrato Francesca Zanni. Ci siamo confrontate per tre mesi sul testo e poi trenta giorni di prove serrate per partorire uno spettacolo che è un inno alla vita che va generata e custodita. Ora mi sento rinata e posso dire che esisto come attrice di teatro».

“Bisogna sapere da dove si viene, per sapere dove andare” dice a un certo punto una delle cinque donne. Da dove viene Beatrice Fazi, e dove va?
«Io sono fiorita come donna quando ho fatto pace con le origini che ho combattuto perché ho sempre desiderato essere diversa dalla donna meridionale che ero e che viveva ingiustizie e discriminazioni sulla propria pelle come quando mia madre dava dei soldi di nascosto a mio fratello per aiutarmi nelle vicende domestiche. Quindi Beatrice viene da Salerno e spero che vada verso il Paradiso. Anche se in realtà mi sento già in Paradiso perché ho vissuto la preparazione di questo spettacolo in una grande comunione con le persone che hanno lavorato con me».

Si riferisce a un paradiso artistico?
«No, proprio al Paradiso della vita eterna, quello di Cristo».

Matrimonio e maternità: è il fil rouge che lega tutte queste donne. Come a voler dire che le generazioni si succedono, le società si evolvono, tutto cambia ma l’amore non conosce i segni del tempo
«Ma sì, perché solo quello dà senso all’esistenza. È la cosa più bella nella mia vita. Non potrei essere l’artista che sono senza mio marito e i miei figli. Noi donne abbiamo dovuto lottare molto per conquistare diritti e riconoscimenti, e non è finita, ma abbiamo anche commesso errori grandissimi schiacciando ad esempio la figura e il ruolo dell’uomo. Uno dei personaggi che porto in scena si chiama Libertà, ma in realtà il suo nome contraddice la sua condizione esistenziale perché lei è schiava del suo vuoto interiore che la condanna a sperimentare qualunque relazione per colmare un abisso inestinguibile. Anche io ho avuto le mie ferite sanguinanti ma il matrimonio è stato il mio balsamo, la mia ancora di salvezza, la vera bellezza, altro che la tomba dell’amore».

In scena solo un baule. Proietti docet?
«Il baule è un classico, è il cilindro del mago, ma Gigi Proietti non si è mai chiuso dentro come invece faccio io».

Nirvana, la nativa digitale, l’ultima delle cinque donne sul palco. Alla fine prende una decisione che sorprende tutti: difende la sua maternità pur avendo sedici anni.
«Il messaggio è chiaro: commettiamo un grosso errore se tacciamo i ragazzi odierni di superficialità. Mia figlia è molto più matura di me, ad esempio più responsabile di me nella gestione del bilancio familiare. Ovviamente non vanno lasciati soli, richiedono grande capacità di ascolto perché hanno dentro un desiderio di infinito che va incanalato».

Sempre Nirvana a un certo punto dice: «Con questi aggeggi (mostrando il cellulare) possiamo fare tutto. Vediamo ore e ore di sesso senza averlo fatto mai. Vediamo la violenza, le bombe in diretta, i morti ammazzati. E poi restiamo paralizzati di fronte a qualcuno che ci fa una carezza». È realistico che una sedicenne di oggi pensi e parli così?
«Sì: sono molto più consapevoli di quanto possiamo immaginare e vedono anche quanto noi siamo ipocriti quando da un lato li invitiamo a seguire i loro sogni e dall’altro li spingiamo a inseguire il mito del denaro, quando pretendiamo da loro nobiltà d’animo e poi ci vedono fare le scarpe al prossimo».

Cosa desidera si portasse via il pubblico dopo il suo monologo?
«La speranza. Perché alla fine dopo tutti gli errori, gli sbandamenti e le perdizioni c’è comunque un’altra vita che nasce grazie all’amore».

di Michele Sciancalepore, fonte Avvenire

20 Aprile 2018