La scena è LABIRINTO
NAPOLI Che il teatro sia un sogno è assodato. Un sogno elaborato drammaturgicamente dallo scrittore, assimilato dal regista che lo offre agli attori, i quali a loro volta lo introiettano per poi donarlo allo spettatore, che infine metabolizzerà l’impalpabile materia facendola sedimentare nel proprio inconscio. Tutte queste metamorfosi oniriche, che paiono ovvietà infantili ma che hanno resistito impavidi all’evoluzione di mode, mezzi e intermezzi di comunicazione e risultano davvero commoventi e vitali di fronte alle solipsistiche declinazioni digitali, sono sempre state ben saldamente presenti nella coscienza di Ruggero Cappuccio. Il direttore artistico, infatti, al timone per il secondo anno consecutivo, ha voluto caratterizzare l’inizio dell’undicesima edizione del Napoli Teatro Festival Italia con un weekend all’insegna di spettacoli che il sogno lo hanno abitato, scrutato e dilatato in vario modo.
Quattro opere su 85 nazionali e internazionali sono poche per caratterizzare una rassegna che prevede 33 giorni di programmazione fino al 10 luglio per 160 recite complessive, ma di certo hanno dato un messaggio inequivocabile agli spettatori: perdete ogni certezza voi ch’entrate. E di convenzioni stereotipate non ce ne sono affatto in Un attimo prima, 50 minuti di viaggio sinestetico a 360 gradi del corpo, della mente, dell’animo che smuove e commuove, spiazza e strazia, accarezza e spezza. A creare e garantire questa esperienza multisensoriale che vive di paradossi perché leggera e profonda, delicata e penetrante, gioiosa e struggente, fragile e forte, la sensibilità unica di Gabriella Salvaterra che per quasi venti anni ha lavorato col Teatro de los Sentidos di Enrique Vargas in cui l’unica regola è sempre stata il gioco. E sono abili giocolieri e funamboli di emozioni gli attori che conducono 12 spettatori-viaggiatori in un percorso in cui al buio, o in penombra, o con luci soffuse si vivono incontri, si percepiscono essenze, si accolgono frammenti di confessioni di vita, si ricevono contatti, si balla, si interagisce, si manipolano ricordi, si scrivono confidenze. Si è come sospesi in una dimensione fuori dal tempo e dallo spazio ma lucidamente dentro se stessi, condotti, ma non costretti, con sapiente costruzione drammaturgica, a guardare nelle feritoie delle proprie ferite, a riflettere sulle rotture fisiche ed emotive, sulle crepe del passato e sulle cicatrici del presente. Se ne esce educati all’arte dell’ascolto e con qualche feconda lacrima sul volto.
Si fa fatica invece a entrare pienamente nell’articolato e complesso sogno allestito dal Teatro Valdoca. Il seme della tempesta presentato al Teatro Bellini è l’evoluzione e il compimento in forma di trilogia di Giuramenti che aveva debuttato un anno fa al Bonci di Cesena. Qui il regista Cesare Ronconi conferisce assoluta pienezza a un progetto laboratoriale che aveva già coinvolto dodici under 30 a cui se ne sono aggiunti altri venti. La loro forza e precisione corale e formale è indubbia, l’autenticità delle loro urgenze di ribellione a rapporti asfittici e sterili è dirompente, così come adamantina e folgorante è la necessità di una dimensione spirituale e trascendente, unica arma salvifica che possa far «vivere l’avventura d’essere vivi». La fatica a volteggiare nella dimensione onirica cui si accennava riguarda però i primi venti minuti trascorsi tra i suoni materici, ancestrali o elettronici e i primissimi piani virati in bianco e nero ed evocanti ombre del passato. Nelle intenzioni del regista dovevano essere propedeutici alla concentrazione perché da vivere in modalità itinerante; purtroppo fruiti sulle statiche poltrone la loro funzionalità si è tradotta in turgida componente estetizzante. Carichi di complessi simbolismi anche le innumerevoli coreografie, mentre emergono in tutta la loro purezza e incisività i testi di Mariangela Gualtieri presente anche in scena in un memorabile discorso testamentario, un inno all’amore che resta, mentre «il resto è scoria».
Le scorie malefiche e ancora pulsanti del “day after” la tragedia del Macbeth shakespeariano hanno invece affascinato la mente visionaria di Pierpaolo Sepe che con Abitare la battaglia ha voluto indagare le conseguenze del male che agita i fantasmi protagonisti di uno dei più cupi e neri drammi elisabettiani. Settanta minuti in cui il sogno si rivela subito un incubo. Anche qui un prologo di cinque minuti di totale inattività in cui i sette interpreti in proscenio fissano inerti il pubblico per poi progressivamente inanellare sequenze coreografiche di plastiche pose via via sempre più parossistiche accompagnate da una musica emozionale e incalzante. Parole assenti o quasi nella prima mezz’ora, in seguito solo poche citazioni dal testo originale in inglese. Ma non importa. Ciò che davvero conta sono le evocazioni tutte corporee dell’inferno a cui un’umanità tutta materica e priva di spiritualità si autocondanna.
Parimenti senza via di uscita dalla propria gabbia di frustrazioni e fallimenti, infine, il figlio Alfredo protagonista di Regina Madre, l’opera di Manlio Santanelli del 1984 che Ionesco definì “éxtraordinaire”. E indubbiamente fuori dall’ordinario le prove di Fausto Russo Alesi e Imma Villa che danno vita a esilaranti e più spesso caustici e sarcastici duelli-duetti in un continuo ribaltamento di ruoli. Il rapporto fra la classica madre dispotica, vittimista e capace di innescare crudeli sensi di colpa e un figlio intrappolato nelle proprie ferite, incapace di affrancarsi e di rivolgere sguardi compassionevoli, nella versione allestita da Carlo Cerciello acquista molteplici e sempre più vertiginosi livelli di lettura: dall’iniziale realismo si scivola nel grottesco, poi nel surreale, infine nel drammatico. Il tutto connotato in modo eloquente all’interno di una scena-stanza mentale con l’imponente lettone materno e un bianco accecante che obnubila e paralizza le coscienze.
di Michele Sciancalepore, fonte Avvenire
15 Giugno 2018