Martedì in seconda serata
Il cast dello spettacolo teatrale “Noi non siamo barbari”.

Dalla Magna Grecia all’alta pianura padana, dall’acroterio d’Italia, come la definì Tucidide, alla “Leonessa d’Italia”, in memoria dei dieci giorni di resistenza risorgimentale contro gli austriaci nel 1849. Insomma da Reggio Calabria a Brescia, dalla settima edizione della rassegna “Miti Contemporanei” alla decima del “Wonderland festival“. La latitudine è diversa, ma il tema non cambia. Il “vulnus”, la ferita, è sempre la stessa. Ed è la più controversa, la più lacerante, la più dibattuta dei giorni nostri: i flussi migratori con il loro portato di dolori e questioni. Accoglienza o respingimento? Apertura o paura? Opportunità o pericolo? Dilemmi che attraversano Noi non siamo barbari, uno degli spettacoli di punta presentato all’interno del resiliente e dinamico festival calabrese. Il testo dell’autore contemporaneo tedesco Philipp Löhle è tutt’altro che un chiacchiericcio incomprensibile se vogliamo riferirci al significato del termine “barbaro” attribuito dagli antichi greci agli stranieri che fuori dai confini dell’Ellade blateravano idiomi per loro balbettanti e incomprensibili.

È invece un concentrato densissimo e chiarissimo di dissertazioni problematiche con cui si scontrano due coppie “normali”. Da un lato Mario e Barbara, che davanti al più classico dei “metti una sera un migrante” non si scompongono, attuano tutti i principi della solidarietà, della disponibilità, condivisione ed empatia con lo straniero che bisognoso, impaurito, infreddolito, dal nome ambiguo e mai compreso, “sbarca” e bussa una sera all’improvviso a casa loro ricevendo repentina, quasi incosciente ospitalità ammantata di pusillanime premura e venata da uno stucchevole fascino per l’esotico. In mai velata contrapposizione si stagliano i vicini di casa Linda e Paul, sgomenti per cotanta incondizionata accoglienza, sbigottiti da una benevolenza così naïve e a un passo dalla dabbenaggine, paladini del «dove andremo a finire», «non è mica l’unico a star male», «il nostro paese è un grande self-service per loro», «è la coscienza sporca occidentale che spinge a donare senza remore». Detto così sembrerebbe che non ci sia partita e che la spontanea generosità dei primi due coniugi contrapposta alla palese ostilità della seconda coppia debba riscuotere scontata adesione. Fortunatamente non è così; lo sviluppo dialettico è molto più sottile e spiazzante e l’intreccio drammaturgico si tinge di noir con l’imprevisto coup de théatre: l’accogliente Barbara viene uccisa, lo straniero accusato di omicidio e il finale resterà ambiguamente irrisolto. Ma il fascino della pièce poggia su ben altro. All’interno infatti di una dialettica serrata, in cui le due argomentazioni duellano acerbamente, si fa strada la vera e per nulla banale idea del drammaturgo teutonico: non ci sono tesi vincenti se l’essere è stato soppiantato dall’avere e qualunque propensione all’apertura dei confini o alla difesa dei recinti si rivelerà vacuo luogo comune, sterile stereotipo, un vuoto simulacro se non ci sono anime ma solo ectoplasmi che si appassionano davanti a un display al plasma, identità infiacchite e svilite e quindi incapaci di confrontarsi e dialogare autenticamente con la nuova inarrestabile realtà. Assunti profondi ottimamente interpretati e incarnati dai quattro protagonisti (Filippo Gessi, Saverio Tavano, Teresa Timpano, anche direttrice artistica del festival, e Stefania Ugomari di Blas) e dalla regia di Andrea Collavino che argutamente opta per un impianto scenico simbolico, evocativo e minimalista.

Da verbosi conflitti verbali a violenti scontri carnali, dal fiume di parole di Noi non siamo barbari all’ondata di fisicità di Nafrat. El viatge de la vergonya. Dalla Spagna, in particolare dalla Catalogna, è giunto a Brescia in prima nazionale per il poliedrico “Festival Wonderland” il classico evento che attira lo spettatore in cerca di forti emozioni e che possiede tutti i crismi della straordinarietà: “è site specific” ovvero studiato per una specifica location, molto itinerante e dichiaratamente non adatto ai minori di 16 anni, ai cardiopatici e ai claustrofobici. Ma non si tratta di un viaggio in una adrenalinica e ludica casa degli orrori bensì un affondo emotivo, un’esperienza vibrante ideata dai tre performer catalani di Nafrat Collectif che per questo loro primo progetto si sono ispirati a un fatto di cronaca dell’agosto 2015 quando in un’autostrada fra l’Ungheria e l’Austria fu ritrovato un camion abbandonato con dentro i corpi di rifugiati asfissiati. Uno dei tanti disumani e vergognosi episodi che dovrebbero indignare il genere umano. Uno dei tanti drammi di questi viaggi della disperazione che dovrebbero aprire ferite e suscitare disprezzo.

Piaga e odio è infatti il duplice significato del termine “nafrat” che indica per di più anche il nome con cui vengono chiamati i rifugiati che si propongono di fare da intermediari con la mafia per organizzare gli spostamenti degli altri clandestini. Tragedie già abbondantemente viste ma, proprio perché ormai scivola tutto verso l’indifferenza e non trova più risonanza e spazio nei media iberici, il Nafrat Collectif ha deciso di proporre a 25 spettatori alla volta di vivere in prima persona l’odissea di una fuga disperata seppur ovviamente simulata. Dopo un cammino in uno spazio all’aperto si viene prelevati e fatti salire sul tir e lì inizia il viaggio in lungo e in largo all’interno di un ampio desolato parcheggio. In 45 minuti si susseguono urla, tensioni, spintoni, buio, spari, verosimili confessioni e drammatiche azioni, tutti elementi amalgamati, incisivi e credibili come i filmati proposti durante il viaggio con le scarne e crude testimonianze di migranti che svelano i dettagli aberranti dei loro viaggi, quelli sì veri. Resta però lodevole il pensiero che il gruppo spagnolo riesce a insinuare in chi partecipa a questa micro fittizia peripezia: anche noi possiamo diventare “barbari”, stranieri senza più patria o incivili senza più valori.

di Michele Sciancalepore, fonte Avvenire

6 Dicembre 2018