Martedì in seconda serata
Una scena di “When the rain stops falling – Quando la pioggia finirà”. Regia di Lisa Fernazzo Natoli

«La profondità va nascosta. Dove? Alla superficie». È bene ricorrere a questo aforisma paradosso di Hofmannsthal per dare subito una chiave, uno strumento e un passepartout interpretativo al lettore o allo spettatore di When the rain stops falling – Quando la pioggia finirà, opera del 2008 del drammaturgo australiano Andrew Bovell che ha debuttato sul palcoscenico del Teatro Arena del Sole di Bologna nella stagione dell’Emilia Romagna Teatro per poi proseguire in tournée a Modena, Parma e Roma fino al 3 marzo.
È infatti proprio sulla cresta di parole ed espressioni quotidiane, quasi stereotipate, sulla superficie di un linguaggio semplice, immediato e spesso volutamente, per evidenti ragioni drammaturgiche, reiterato che va cercato il senso ultimo di un testo e di uno spettacolo da navigare e solcare come dei surfisti pronti però a immergersi in apnea all’occorrenza o a farsi scavallare dalle onde. Una tale premessa potrebbe avere un effetto deterrente alla lettura o alla visione; così come una reazione ostica la suscita la proiezione proposta a inizio spettacolo dello schema dell’albero genealogico che, in apparenza, dovrebbe chiarire discendenze e relazioni fra i numerosi personaggi che si avvicendano nella storia, ma in realtà vuole sortire appositamente l’effetto contrario, ovvero, creare confusione, smarrimento per invitare implicitamente a non cercare una comprensione diacronica degli eventi ed evitare ogni razionale tentativo di incasellamento e ad abbandonarsi invece al flusso di un racconto che sovrappone persone, oggetti, situazioni, piani e spazi temporali. Una cosa è certa: alla fine tutta la farragine di rapporti si risolve, si chiarisce, tutto torna e soprattutto la profondità e la complessità vengono trasparentemente a galla. E ciò che traspare in finale è un’umanità che evoca la Gente di Dublino di Joyce (evocazione forse non estranea all’origine irlandese dell’autore), uomini e donne intrappolati in una sorta di «paralisi morale» come i «dublinesi» incapaci di compiere movimenti significativi.

La ciclicità non a caso è una costante narrativa e formale: tornano le locuzioni e i pensieri esternati sempre allo stesso modo a distanti stanza di decenni («il pesce fa bene al cervello», «c’è gente che annega in Bangladesh»), le cose (la zuppa, le cartoline, la vernice), tornano i personaggi sballottati qua e là nel tempo e nello spazio e l’ultima scena chiude il cerchio con la prima. Per quanto riguarda la trama, prendendo in prestito le parole di Elizabeth, uno dei personaggi, ci sarebbe «così tanto da dire che non si ha nemmeno il coraggio di cominciare».

L’intreccio, in effetti, è un vortice in cui in nove tra madri, figli, mogli e mariti entrano ed escono dal racconto sovrapponendosi e dissolvendosi l’uno nell’altro. È una saga familiare che si sviluppa e dipana nell’arco di 80 anni, dal 1959 fino al 2039, in un futuro dal sapore distopico che presagisce un imminente apocalisse in cui la pioggia è incessante e piovono pesci dal cielo, evidente rimando alla pioggia di rane del film Magnolia. Alla base di questa narrazione, caratterizzata da co-slittamenti e interferenze temporali e geografiche, c’è un vulnus, una ferita terribile, aberrante e indicibile da cui tutto scaturisce, e che provoca attraversando quattro generazioni azioni e rimozioni, oblii e ricordi, muri di silenzio e rotture, viaggi alla ricerca di verità e fughe senza ritorno, padri che abbandonano i figli e madri che si lasciano annegare, menti sconvolte e animi votati al sacrificio.

Uno spettacolo insomma vertiginoso che la regista Lisa Ferlazzo Natoli, già avvezza a racconti scenici o radiofonici di ampio ed epico respiro, è stata superbamente in grado di manovrare e maneggiare senza precipitare nel caos. Intelligentemente la Natoli ha reso omaggio all’attività di sceneggiatore cinematografico dell’autore creando un impianto scenico che, con riflettori a vista e indicazioni didascaliche, simbolicamente echeggia quello di un set televisivo con tanto di parola «fine» proiettata al termine dello spettacolo. La fissità della scena (un tavolo, alcune sedie e poco più, con sul fondo un muro che fa da proiezione visiva e immaginifica degli stati d’animi che si susseguono) diventa mobile e fluttuante come per incanto. In realtà non è magia ma frutto di un eccellente lavoro su tutti e nove gli interpreti capaci di essere sempre presenti nello spirito e nella situazione del personaggio nonostante gli innumerevoli salti temporali con una precisione impeccabile e un tempismo perfetto.

Un’operazione teatrale, dunque, che esalta il valore dell’ensemble e del collettivo in linea con il finale dell’opera in cui uno spiraglio di luce, che si insinua nell’uggioso grigiore e che interrompe la pioggia, è dato da un decisivo momento di autentica relazione e comunione fra padre e figlio, una spinta verticale che, rompendo il movimento circolare e vizioso, cerca una verità di rapporti, una «profondità che ricrea» come direbbe Hofmannsthal.

di Michele Sciancalepore, fonte Avvenire

21 Febbraio 2019