I cafoni di Fontamara rivivono con Silone
Ambientato durante l’ estate del 1929 in un immaginario paesino abruzzese, l’ epico racconto popolare dello scrittore va in scena con immutata forza evocativa e attualità nonostante siano “passati” 90 anni «Quelli che a 50 anni hanno perso il lavoro, quelli che a 20 e 30 anni non lo trovano e vanno via, quelli che vengono dall’ Africa e fanno i braccianti sfruttati, malpagati, vessati sono loro i “cafoni” di oggi, sono loro i “fontanamaresi” ». A dirlo, con sguardo dolce e sorriso amaro, è Diocleziano Giardini, studioso della storia di Pescina, «un antico e oscuro luogo situato nella Marsica, a settentrione del prosciugato lago di Fucino, a mezza costa tra le colline e la montagna», insomma Fontamara. Esattamente quel «villaggio meridionale un po’ più arretrato e misero e abbandonato degli altri» che oggi conta meno di 4000 anime e che ai primi del ‘900 ospitava i contadini poveri e ispirò la creazione di Scarpone, Giuvà, Elvira, Matalè, Berardo Viola, Teofilo, Marietta, Pasquale Cipolla, Venerdì Santo vivide e umanissime icone di povertà e umiliazione, i personaggi di Fontamara, per l’ appunto, il primo celeberrimo romanzo, immediatamente tradotto in ventisette lingue, di Secondino Tranquilli, in arte Ignazio Silone. Sono trascorsi 89 anni da quando il faro della letteratura meridionalista scrisse quello che il critico Luigi Russo definì emblematicamente «il poema epicodrammatico della plebe meridionale, in cui per la prima volta questa assurge a protagonista di una “storia”, acquista un volto». Cosa è cambiato da allora? I campi della valle del Fucino stanno ancora lì, seppur puntellati da capannoni industriali; a lavorarli non più la manovalanza nostrana ma le braccia nere dei migranti, comunque ancora “cafoni”, “vermi della terra”, “i niente”, come direbbe oggi Silone nel vederli; le tracce delle ferite del terribile terremoto del 1915, che in trenta secondi provocò la morte di trentamila persone tra cui anche la madre Marianna e il fratello maggiore Domenico dello scrittore abruzzese, sono ormai rare, ma evidenti invece le lacerazioni nell’ animo dei giovani che non vedono futuro e speranza a Pescina; sta ancora lì la casa natale di Silone in via Sant’ Antonio, una palazzina, tutta da restaurare, con numerosi ambienti tra cui nel piano superiore il tanto amato focolare; inalterata anche la mitica fontana targata 1908 del quartiere Fontamara, lungo la strada statale 83 Marsicana, all’ uscita del paese, proprio quella del romanzo, la fontana “ammuto-lita”, quella sorgente d’ acqua preziosa per l’ arsura dei campi e delle gole; intatta e suggestiva la tomba in cui Silone volle essere sepolto secondo un’ esplicita volontà: « ai piedi del vecchio campanile di San Berardo, con una croce di ferro appoggiata al muro e la vista del Fucino in lontananza». In ottime condizioni anche la Olivetti n° 0, prototipo regalato allo scrittore perché lo testasse, così come gli altri preziosi ricordi e cimeli raccolti nel Centro studi siloniani nato grazie al lascito della moglie Darina. Ma soprattutto, ed è questo forse l’ aspetto più sorprendente, senza ombra alcuna e con immutato affetto è il rapporto fra i pescinesi-fontanamaresi e il loro illustre concittadino che in realtà non fu affatto tenero, anzi assolutamente privo di qualunque sfumatura romantica e oleografica, addirittura spietato nel descrivere e denunciare le condizioni quotidiane, economiche e morali delle classi sociali della sua epoca, non lesinando giudizi sulla grettezza della realtà contadina condannata dalla sua stessa ignoranza a subire ogni sorta di angheria. Ma altresì si percepiva nello spirito di Silone un irreversibile e inderogabile desiderio di giustizia e la tenace e ferrea convinzione che la coltura senza cultura inaridisce animi e terreni. Tutto ciò gli abitanti di Pescina dei Marsi lo sanno bene e, a differenza degli ostracismi e rimozioni che una parte di Napoli operò all’ inizio nei confronti di Eduardo De Filippo colpevole di non lavare i panni sporchi in casa propria, essi nutrono per Silone ancor oggi un’ incondizionata empatia. Prova concreta è stato aver assistito a un singolare e inaspettato fenomeno durante la visione di uno spettacolo intitolato Fontamara, allestito per l’ occasione proprio a Pescina al Teatro San Francesco (replica domani, 14 marzo, al Teatro dei Marsi di Avezzano) dalla compagnia del Teatro Lancivicchio, una realtà indipendente marsicana che opera in modo alacre e profondo sul territorio con il sostegno del Teatro Stabile d’ Abruzzo di- retto da Simone Cristicchi. Una messinscena curata da Antonio Silvagni e frutto di un lavoro scrupoloso e incisivo sia dal punto di vista letterario, grazie all’ adattamento drammaturgico lineare e vibrante di Francesco Niccolini, autore che da anni collabora con Marco Paolini creando testi che allertano la coscienza civile, sia sotto l’ aspetto scenico e recitativo. In una scenografia essenziale ed evocativa con una ventina di sedie e tre cumuli di terriccio, cinque interpreti, quasi sempre ancorati alle loro sedute, hanno dato vita alle disgrazie dei cafoni di Fontamara affastellando sì personaggi e situazioni ma orchestrando una sorta di partitura musicale a più voci fluida e avvolgente. E all’ interno di questo concerto narrativo avviene appunto un fatto raro e impensabile nelle platee italiane: gli spettatori pescinesi commentano, anticipano le battute, vivono emotivamente le vicissitudini lontane quasi un secolo ma evidentemente ancora pungenti e pulsanti nella loro memoria collettiva. Stefania Evandro, Alberto Santucci, Rita Scognamiglio e Giacomo Vallozza dal palco, limitando toni retorici e inseguendo quell’ asciuttezza di linguaggio già peculiare nel romanzo, raccontano la beffa atroce che le autorità perpetrano assetando i cafoni e le loro terre, descrivono lo stupro di Maria Grazia da parte di cinque fascisti, la strage finale degli squadristi che annientano il villaggio. E dalla platea giunge di rimando commozione, sdegno, sempre puntuale una reazione. Solo all’ inizio c’ è spiazzamento con l’ avvio della narrazione affidato a un figlio delle migrazioni, comunque ben interpretato dall’ acerba ma dotata Angie Cabrera, che dovrebbe riverberare la discriminazione del passato sul presente. Idea coerente, ma da potenziare e amalgamare. Pienamente indovinato invece il finale, mutuato dal romanzo, con la domanda “che fare?” che, di fronte a tante «pene, lutti, lacrime, piaghe, odio, ingiustizie e disperazione », si leva schietta, diretta. Un quesito che invita all’ azione e che trova proprio nello spazio del teatro, che è agire e agone drammatico, una sua ineludibile ragione d’ essere.
MICHELE SCIANCALEPORE
13 Marzo 2019