Martedì in seconda serata

Gabriele Lavia in scena con “I giganti della montagna”

Si alza il sipario un po’ sbilenco e antichizzato e davanti alla platea si palesa un teatro nel teatro. L’effetto speculare è reso ancor più scioccante dalle condizioni fatiscenti e rovinose di questa ricostruzione: i palchi sono decrepiti, decadenti e soprattutto sventrati da un mortale, gigantesco e inquietante squarcio. Sul palcoscenico quindi viene riprodotta la visione di un teatro dirupato, divelto, diroccato. Metafora più esplicita, al limite del lapalissiano, Gabriele Lavia non poteva produrre per creare una mirabile sintesi scenografica de I giganti della montagna, l’incompiuto (ma non per Lavia che considera esistenziale e perfetta l’incompiutezza di questa opera-testamento) capolavoro di Luigi Pirandello che morì la notte prima di scrivere l’ultimo atto di cui raccontò la sinossi al figlio Stefano.

Lampante è l’amara denuncia del testo che ha come titolo personaggi che mai appaiono in scena e per questo ancor più terrificanti, quei giganti «duri di mente e un po’ bestiali», uomini ottusi dalla materialità, privi di spirito, di gusto per la bellezza, fautori della morte della poesia e del teatro. Nella scena squartata invece è ben presente e si agita sin dall’inizio una ciurma di reietti, di emarginati dal mercato produttivo, gli “scalognati” che, assimilata l’arte della privazione e dell’inutilità, vivono appunto a Villa Scalogna, in pratica un’apocalittica isola di distopia più che di utopia. A guidare gli scalognati una sorta di alchimista, un po’ capocomico, un po’ direttore di circo, il mago Cotrone in grado di dare forma artistica a qualunque fantasia con la magia del verbo, insomma un «abracadabra» vivente che crea parlando. A tale demiurgo dà corpo e animo lo stesso Lavia conferendogli in particolare un’aura di saggezza mista a tenera tristezza. In questa sovra-realtà onirica e immaginifica giunge un’altra banda di quelli che oggi il gergo giovanile non esiterebbe a definire “sfigati”, un gruppo di attori sfiniti fisicamente e moralmente, sbandati e ormai derisi da un mondo che non contempla più spazi teatrali e arte interpretativa. È la Compagnia della Contessa Ilse, un’eclettica e inquieta Federica Di Martino, che non vuole rinunciare all’ossessione di recitare da qualche parte La favola del figlio cambiato. Cotrone offre loro ospitalità e la possibilità di rappresentare la loro favola proprio a Villa Scalogna, unico luogo dove ancora la magia è di casa. La contessa declina l’invito e riafferma l’intenzione di voler recitare davanti agli uomini, ai giganti di cui nel finale si ode il tremendo passaggio tra nitriti e assordanti rumori di ferraglie che attraversano sonoramente il teatro intero in perfetto effetto dolby-surround. In chiusura le flebili ma significative cinque parole pronunciate da Diamante, la “seconda Donna” della compagnia, comunque le ultime scritte dal drammaturgo di Girgenti: «Io ho paura! ho paura!».

È chiaro che non ha avuto alcun timore invece il settantaseienne attore e regista a creare uno spettacolo che per sua natura tematica e poetica deve avere il crisma della visionarietà. In effetti le meraviglie sceniche e coreografiche non mancano e sono mozzafiato, difetta piuttosto la pulizia acustica nelle scene corali caratterizzate a tratti da una soverchiante recitazione grottesca. Ma è indubbiamente uno spettacolo di prosa singolare al giorno d’oggi per imponenza tecnica e scenografica e numero di interpreti. «Ventitré attori in scena rappresentano una provocazione, un atto eversivo, un sintomo di ribellione», esterna con un lampo di malcelata tensione negli occhi Gabriele Lavia che incontriamo al Teatro Eliseo di Roma dove è in scena fino al 31 marzo. Una rivolta contro chi o cosa? «Contro la burocrazia del teatro! Oggi il 90% del denaro del teatro va a finire negli uffici e l’80% degli uffici sono inutili. La sproporzione fra il numero degli impiegati nel teatro pubblico e quello degli attori in scena è aberrante, così come il totale delle 15 mensilità dei dipendenti paragonato alla dichiarazione dei redditi annuale di un attore che oggi nel migliore dei casi riesce a fare una tournée di due, tre mesi al massimo in un anno. Certo, da questo discorso sono esclusi gli spettacoli che io chiamo “digestivi” fatti da attori cani e microfonati. Ma quello non è teatro». Quindi il teatro, al netto delle provocazioni come la sua, è destinato a morire? «No, il teatro non può morire, morirà forse la forma dello spettacolo, ma la rappresentazione dell’uomo per l’uomo non può morire». Ma cosa ci vuole allora per far vivere lo spettacolo? «Ci vuole impegno! Chi si dà ormai “in pegno”? Se tu non dai il pegno di te stesso sul palcoscenico, se non realizzi un contratto morale con lo spettatore allora non succede nulla, al massimo un movimento intestinale».

È evidente che giunto a una veneranda età Gabriele Lavia non ha timori né peli sulla lingua, ma c’è qualcosa di cui ha paura? «Ho paura ogni volta di andare in scena e poi della morte! il sogno della mia vita è di essere eterno, ma temo che non potrò mai realizzarlo e mi son dovuto rassegnare a non fare più Amleto, Costantino nel Gabbiano, Macbeth posso fare Re Lear, ma ci vogliono molti soldi per allestirlo, anche se ho già disegnato la scenografia». Quindi il prossimo spettacolo sarà Re Lear? «No, farò Bertolt Brecht, che sarà il penultimo; Re Lear sarà l’ultimo e lo farò non appena avrò trovato una Cordelia abbastanza leggera da portare in braccio». Tornando al presente e a I giganti della montagna c’è una riflessione di Ionesco davvero in sintonia con la poetica pirandelliana: «Se non si comprende l’utilità dell’inutile, non si comprende l’arte; e un paese dove non si comprende l’arte è un paese di schiavi o di robots, di persone infelici, che non ridono, un paese senza spirito dove c’è la collera e l’odio». «Ma sono esattamente loro! I giganti!». Augurarsi che il teatro non sopravviva ma viva qui, su questo palco che riproduce un teatro in rovina cosa significa? «È provocatorio, è eversivo. Ma il pubblico con la sua presenza rende vivo e integro questo teatro distrutto dalla burocrazia».

di Michele Sciancalepore, fonte Avvenire 

19 Marzo 2019