Ranieri tra Cechov e le eterne canzoni
«Avec le temps, va, tout s’en va». «Col tempo tutto se ne va» cantava nel 1971 il cantautore anarchico francese Léo Ferré. A distanza di 48 anni queste stesse parole le canta Massimo Ranieri quasi in apertura dello spettacolo Il gabbiano (à ma mère), libero adattamento dell’opera di Cechov in scena al Teatro Quirino di Roma fino al 31 marzo. E l’effetto è quantomeno straniante. La voce potente e adamantina del sessantottenne artista napoletano infatti sembra non conoscere le offese dell’usura cronologica e riesce a donare all’ardita messinscena di Giancarlo Sepe momenti di struggente e trascinante poesia scandendo i passaggi cruciali dell’intreccio drammatico dell’opera dell’autore russo in questo caso decisamente enucleato e sintetizzato.
Tutto viene evocato o esternato, più di rado vissuto dialetticamente: tutti i nodi e le ferite dei diversi personaggi mostrati in modo quasi aggettante alla platea, dalle lacerazioni interiori della gloriosa attrice Irina Arcàdina, interpretata da un’intensa e un po’ declamatoria Caterina Vertova, ai conflitti con l’amletico figlio Kostja, un Francesco Jacopo Provenzano pienamente nella parte ma con qualche vaghezza interpretativa, alle ansie artistiche e amatorie del famoso scrittore Boris Trigòrin, a cui Pino Tufillaro conferisce una indubbia incisività che in qualche caso però sfocia in una recitazione sopra le righe. A fare da collante in uno spettacolo che sfugge a facili catalogazioni, ma che offre invenzioni coreografiche espressioniste e simboliche di grande suggestione un Massimo Ranieri che a volte veste i panni del figlio Kostja, altre volte quelli dell’autore che evoca e dialoga con i suoi personaggi, altre ancora incarna quel Marcel critico musicale chiamato dallo stesso Cechov a spiegare l’eclatante flop del debutto avvenuto il 17 ottobre 1896 al Teatro Aleksandrinskij di San Pietroburgo.
Sicuramente Ranieri si staglia come un demiurgo nello sviluppo drammaturgico e fa capire subito che la musica è la vera protagonista della scena (non a caso il palco è dominato da uno smisurato pianoforte) e ovviamente quando canta incanta, qualunque sia il brano, dal già citato Avec le temps a La Foule di Edith Piaf, da Je suis malad a Hier Encore di Aznavour. Diventa allora spontaneo chiedere come sia nato questo connubio fra la musica e la prosa verbosa di Cechov: «Semplicemente – svela Massimo Ranieri – chiesi al regista Giancarlo Sepe: “Ma perché non mi fai cantare?” e lui mi rispose che non me l’aveva chiesto per pudore. Al che io ribattei: «No, no, tu chiedi che io sono sempre contento di cantare”. E abbiamo scelto queste meravigliose canzoni del patrimonio musicale francese perché la lingua d’oltralpe era la più popolare all’epoca in Russia. E la cosa più sorprendente è che ogni volta che vado in scena sembra che Cechov abbia scritto il suo Gabbiano proprio con queste musiche».
Nel testo originale la figura della madre è cruciale, in questo allestimento sembra essere ancora più enfatizzata. Non a caso il nostro spettacolo si chiama per la precisione Il gabbiano (à ma mère), “a mia madre”. Noi “ometti” rimaniamo per tutta la vita legati alla figura materna. Io nella mia vita ho potuto sperimentare in prima persona questa fame di amore specie in una famiglia numerosa come la mia, eravamo otto figli e mia mamma, santa donna salita al cielo due anni e mezzo fa, ha dovuto distribuire il suo amore su otto creature, per cui tutti contenti ma nessuno sazio. «Mi muovo nella musica e senza di essa non avvertirei alcune cose» dice lei, a un certo punto, nello spettacolo. Cosa grazie alla musica Massimo Ranieri ha potuto avvertire? Io sono qui grazie alla musica che è alla base di tutto. Non a caso dico sempre che il nostro primo vagito quando veniamo al mondo non è altro che una nota musicale. Nella prima canzone canta «con il tempo tutto se ne va»: cosa invece il tempo non può far svanire? L’amore. L’unica certezza nella nostra vita e nella vita dopo la morte è quella! Ma l’amore vero, spassionato, gratuito, «l’amore che tutto perdona» come diceva San Paolo nella Prima Lettera ai Corinzi.
In più di mezzo secolo di successi, con decine di lavori teatrali, regie, fiction e film, innumerevoli saranno stati i tributi di affetto ricevuti da Massimo Ranieri, ma ce n’è uno tra questi che non dimentica mai? Sì, quando ero ancora Gianni, Giovanni Calone e non ancora Massimo Ranieri. Avrò avuto otto anni. È stato un giorno che non dimenticherò mai e stavo andando dall’otorino accompagnato da mio padre. Lui era un grande uomo, meraviglioso, sempre pronto ad aiutare gli altri, si alzava alle quattro e mezza del mattino per andare a lavorare come operaio all’Italsider di Bagnoli e tornava la sera, mangiava e si metteva a letto. Io all’epoca già lavoravo, come tutti i miei fratelli del resto. Comunque parliamo di 60 anni fa e mi ricordo che bisognava attraversare la strada dove passava il tram e rammento il momento preciso in cui mio padre mi ha preso per mano e ho sentito in quell’istante tutta la sua protezione, la sua mano importante che mi diceva: ci sono qua io non avere paura. Meraviglioso! Chi la aiuta ora nei momenti di difficoltà? Io sono in perenne ricerca, non mi fermo mai perché questo è un mestiere in cui non puoi fermarti, è un lavoro molto duro per certi aspetti che non puoi fare se non lo senti sotto la tua pelle, è difficile da sopportare e se non avessi la fede non ce la potrei fare. La fede in Dio, nelle persone che ti hanno amato e che sai che ti proteggono, sento la loro mano sulla mia testa. Io continuo a dire che la mia sicurezza, la mia forza è l’amore e gli insegnamenti ricevuti nel mio passato, non il mio futuro; il futuro è incerto, il passato, le mie radici sono la mia luce.
di Michele Sciancalepore, fonte Avvenire
26 Marzo 2019