Donnafugata, il più piccolo teatro sposato alla Scala
Nel cuore di Ragusa Ibla, uno dei nuclei del barocco siciliano, precisamente in via Pietro Novelli, c’è un palazzo dalla facciata abbastanza anonima. Non vi è alcuna insegna, né segnalazione, ma se si attraversa la porta al civico 5, anch’essa di ordinaria fattura, si entra in un’altra epoca, si fa un salto temporale indietro di 170 anni. E se si capita in una di quelle serate in cui è previsto un evento, allora si viene accolti da una nobile famiglia che, con gioia e autentico desiderio di condivisione, guida gli ospiti attraverso prima una stupefacente sala dorata, poi quella della musica per trovarsi infine di fronte a una botola che una volta aperta immette in un sottoscala ricavato nella roccia il quale conduce nel mezzo di un’assoluta meraviglia, in un palchetto centrale all’interno di un intimo gioiello teatrale, una classica bomboniera. Si vive insomma un vero e proprio coup de théâtre e anche un colpo al cuore. Lo stesso che sperimentavano le persone che frequentavano questa casa nella seconda metà dell’800 invitate a fruire privatamente di una rappresentazione lirica.
È il Palazzo Arezzo all’interno del quale è custodito il Teatro Donnafugata che con i suoi 99 posti e un’acustica perfetta è il più piccolo spazio scenico dell’Opera attivo in Italia. Ma le sorprese non finiscono qui. A dirigere il Donnafugata da quasi dieci anni, dopo un restauro durato sei anni, due donne, due bellezze mediterranee, due sorelle, Costanza e Vicky Di Quattro che hanno così ereditato artisticamente il teatro di famiglia dopo che da bambine lo avevano frequentato e calcato per vivere e inscenare i loro giochi d’infanzia: «Proprio qui su queste tavole del palco ci saremmo sposate milioni di volte – precisa Vicky –. Da piccola sognavo il matrimonio e costringevo Costanza, più piccola di me, a interpretare contemporaneamente più ruoli, il mio sposo e il sacerdote che celebrava; io ero la sposa vestita a nozze». Dal nonno, l’avvocato Salvatore Scucces, al padre Pietro, alle figlie, un teatro in casa propria, ricordi che trasudano dalle mura, un bene privato aperto però alla bellezza dell’arte e alla comunità ragusana.
Dalla stagione 2010/2011 si susseguono collaborazioni con compagnie nazionali, programmazioni di prosa, rassegne per bambini, musica classica, festival, mostre. Le due sorelle ci tengono a sottolineare come la gestione tutta al femminile (Clorinda Arezzo è la terza donna del team in veste di coordinatrice organizzativa) sia non solo una peculiarità ma abbia rappresentato nella più bassa Italia, più a sud di Tunisi, un punto di forza, un volano al di là di tutti gli stereotipi che vedono il sesso debole in Sicilia rinchiuso fra le mura a gestire le faccende domestiche. Donne quindi tutt’altro che fugate, tantomeno cervelli in fuga, e per di più madri: «Le cose più belle della mia vita – svela Vicky Di Quattro –, la gravidanza, la maternità e quest’altro figlio che è il teatro sono venute tutte insieme».
E gli spiazzamenti continuano, anzi in questo caso un eclatante corto circuito, un legame e una relazione davvero più unica che rara: il teatro dell’Opera più piccolo d’Italia col suo palcoscenico di cinque metri per sette ha creato dal 2017 una collaborazione con il tempio della lirica, il Teatro alla Scala di Milano col suo boccascena di sedici per dodici. I 1451 chilometri che separano via Filodrammatici da via Novelli si annullano, la mastodontica macchina teatrale milanese decide di dialogare con la minuscola realtà iblea: «Un’alchimia meravigliosa – riferisce con entusiasmo Costanza Di Quattro – nata quasi per caso grazie a Luisa Vinci, la direttrice dell’Accademia Teatro alla Scala di Milano, che mentre passeggiava per Ragusa Ibla entrò qui, visitò la casa e se ne innamorò».
Un amore che ha prodotto e portato nel Teatro Donnafugata due anni fa Il Barbiere di Siviglia, l’opera buffa di Gioachino Rossini, in versione ovviamente “pocket”, con una riduzione scenografica in miniatura senza rinunciare a qualità, professionalità e perfezione artistica. Anzi, proprio la maniacalità del sistema organizzativo milanese aveva suscitato inizialmente un po’ di disorientamento: «Quando arrivò il piano dei lavori dell’Accademia – confida Costanza – restammo spiazzati dal calendario programmato per ogni singolo minuto e rispetto alla nostra sicula percezione del tempo e degli appuntamenti molto più vaga e dilatata c’era un abisso, sembrava un divario insormontabile. Ma poi l’empatia e il confronto reciproco hanno creato delle fusioni inusitate, noi abbiamo appreso e assimilato la precisione del lavoro di squadra e loro sono stati investiti dalla nostra scanzonata allegria e ironia che spesso risolve e fa superare molti problemi». Un’unione che fa la forza manifestatasi anche nella coproduzione di quest’anno che ha portato all’allestimento del melodramma giocoso di Gaetano Donizetti L’elisir d’amore. In poco più di un’ora con un sapiente adattamento del libretto, un’accurata e coerente selezione delle scene e delle arie, una scenografia minimale ma simbolicamente espressiva, con alcune alternative ed efficaci soluzioni registiche di Laura Galmarini e il talento dei solisti dell’Accademia milanese, si riesce a sintetizzare magistralmente la vicenda amorosa di Nemorino e Adina valorizzando la bellezza dell’infinitamente piccolo. Un sogno dunque che ha richiesto studio, caparbietà, spregiudicatezza e anche una sana dose di incoscienza, simile a quella degli “innocenti” di Bertrand Russell che «non sapevano che il progetto che volevano realizzare era impossibile. E proprio per questo lo realizzarono!».
di Michele Sciancalepore, fonte Avvenire
2 Maggio 2019