Martedì in seconda serata

È ancora tutto in fieri, con snodi drammaturgici da definire e nodi da sciogliere. Eppure quando Marco Baliani attraversa le quinte e conquista lo spazio scenico della “sala Melpomene” del Teatro delle Muse di Ancona l’attenzione diventa immediatamente alta come la sua statura e la tensione affilata come il suo profilo perché lui è subito Tano, un uomo ai margini, un “outcast”, un disabile mentale, debole, indifeso, fragile, da maneggiare con cura, pena l’esplosione in mille frammenti. È il protagonista di un flusso narrativo poliedrico e caleidoscopico, ricco di analessi e slittamenti spaziali e tematici. È la storia della gratuità del male insensato, immotivato che sempre più spesso ai giorni nostri si manifesta senza un logico perché e che questo racconto non spiega, ma denuncia in tutta la sua crudezza. Senza alcuna ragione razionale infatti Tano viene pestato a morte da alcuni agenti e facile è l’evocazione del caso Cucchi, ma qui si va oltre: c’è un viaggio nei labirinti di una patologia mentale, l’empatia per chi vive un lavoro malpagato e frustrante, un cruento svelamento autobiografico, una penetrante disamina cristologica sul valore del sacrificio e un’analisi antropologica sulla natura della violenza, l’indagine sull’Assurdo, la pietas infine per un’umanità autolesionista.

In poco più di un’ora il potente e storico affabulatore, con l’ausilio di eloquenti effetti sonori e musiche di Mirto Baliani, una simbolica animazione grafica con le scene e luci di Lucio Diana, la regia precisa e attenta di Maria Maglietta, un sorprendente make up da Oscar, riesce a creare una forma viscerale di quella che lui stesso definisce «teatro di post-narrazione» in cui il linguaggio orale perde il suo andamento diacronico e lineare e «si frantuma, produce loop verbali in cui il tempo oscilla». Tutto questo è Una notte sbagliata, di e con Marco Baliani, prodotto da Marche Teatro e che debutterà il 22 e 23 giugno al Teatro Nuovo all’interno del Napoli Teatro Festival Italia a cui seguirà una tournée estiva e invernale.

Lo spettacolo è un’intensa opera di scavo: «A me interessava – spiega Baliani – riflettere su quel meccanismo che va al di là della casualità della sfortuna, dell’intreccio del destino che ti fa collocare nel posto sbagliato al momento sbagliato e chiedersi come mai gli esseri umani arrivano a essere così terribilmente persecutori rispetto a qualcuno che è inerme, quali dinamiche si innescano. Abbiamo una sensazione netta che ci sia un progressivo impoverimento della sacralità della vita, vedi i barboni che vengono incendiati per gioco dai ragazzini, altri adolescenti che perseguitano fino alla morte un pensionato solo per noia. Vediamo tutta una serie di integralismi e fondamentalismi che avevamo pensato sepolti per sempre, come se l’olocausto non fosse mai arrivato; è come se in generale in tutto il mondo occidentale ci fosse una sorta di cupio dissolvi e il desiderio irrefrenabile di accanirsi contro un capro espiatorio che deve essere un diverso, che sia straniero, nero, ebreo o omosessuale».

È spiazzante anche l’analisi descritta nel testo del senso di colpa che provano le vittime della violenza. Come è possibile un tale paradosso? «È come se si sentissero loro colpevoli della brutalità degli altri! Non lo so perché si innesca questo meccanismo. L’ho vissuto anche io quando a 17 anni sono stato picchiato fuori dalla scuola dai fascisti. Forse accade quello che scriveva Kafka ne Il processo: è così assurdo, così inconcepibile che ti stanno togliendo la vita attraverso i pugni e i calci, che in qualche modo devi cercare un senso e lo trovi creando un ribaltamento e dicendoti che la colpa è tua che ti fai vittima, è terribile».

A un certo punto nello spettacolo c’è l’immagine suggestiva e inquietante della ragnatela descritta da Tano, il protagonista vittima del pestaggio, come qualcosa di soffocante che lo opprime nel momento in cui il suo spazio vitale viene a essere invaso violentemente. Come è nata questa visione patologica così concreta ed efficace? «Ci siamo documentati in tal senso e poi abbiamo avuto un significativo incontro con Thomas Emmenegger, direttore dell’ex Ospedale psichiatrico “Paolo Pini” di Milano, che ci ha raccontato cosa significa essere disturbato, ci ha messo molto in crisi sulle definizioni di psicotico, bipolare, tutti i termini che non dicono nulla sulla specifica realtà della singola persona. E ci ha parlato di pazienti che non sopportano la vicinanza fisica, si devono fidare, appena superi un certo limite reagiscono violentemente. Poi abbiamo letto anche i “bugiardini” dei vari farmaci che vengono assunti da chi ha disturbi mentali».

C’è una domanda che viene ripetuta ossessivamente in un momento di grande tensione del racconto: «Chi sei tu?». Come risponderebbe Marco Baliani a questo quesito dal sapore esistenziale? «Che bella domanda! Io, però, do una risposta che non è bella, non è filosofica, ma estremamente concreta. Io credo di essere quello che serve in quel momento: serve essere affettuoso, serve essere attore, regista, ma anche marito e padre. Ogni volta sono diverso, sono ciò che serve essere».

 

di Michele Sciancalepore, fonte Avvenire 

19 Giugno 2019