Martedì in seconda serata
Nella foto Brunella Giolivo durante un momento dello spettacolo “La valle dell’Eden” di John Steinbeck in scena al Teatro Arena del Sole di Bologna fino al 17 novembre

Bologna – Bisogna partire dalla fine per capire l’origine. Da «Timshel!», l’ultima parola che chiude il poderoso e potente, epico ed epocale romanzo di John Steinbeck La valle dell’Eden e che, anche nell’omonima colossale trasposizione scenica di Antonio Latella, in prima assoluta fino al 17 novembre al Teatro Arena del Sole di Bologna, viene sussurrata prima che cali il sipario da Adam, uno dei personaggi di questo capolavoro che lo scrittore americano considerava «un goffo tentativo di spiegare l’inspiegabile», ma anche il libro della sua vita. «Timshel» è una parola ebraica dal versetto 4.7 del libro della Genesi e precisamente si riferisce all’invito che Dio rivolge a Caino ingelositosi della preferenza accordata ai sacrifici di Abele. A lui, che ha già in animo di compiere il fratricidio e non nasconde il suo «volto abbattuto» e l’istinto maligno, l’Onnipotente dirà per l’appunto: «Timshel!» ovvero «tu dòminalo». In realtà la traduzione più calzante e illuminante è «Tu puoi». È la rivelazione, frutto di un paziente e profondo lavoro di esegesi biblica, che Lee, il personaggio del servitore cinese nel romanzo di Steinbeck, fa allo stesso Adam e a Sam Hamilton, altro ruolo chiave in questa complessa saga familiare. Ne scaturisce una vera e propria agnizione che getta luce sulle azioni passate dei personaggi e offre una nuova prospettiva a quelle future: la possibilità di dominare il peccato, l’opportunità che ha l’uomo di vincere la battaglia contro ciò che sembra essere fatale e predestinato, di spezzare la catena dell’odio, della violenza, del male, insomma la scelta come chiave della libertà.

In estrema sintesi dunque La valle dell’Eden è «la storia del bene e del male», come annotò lo stesso narratore statunitense, un’epopea che affonda nella Bibbia e in particolare in quei 16 versetti della Genesi che raccontano la vicenda di Caino e Abele. Sarebbe davvero arduo fare una sinossi della trama, è più opportuno indicare che al centro del romanzo e anche del copione, splendidamente adattato dallo stesso Latella insieme alla drammaturga Linda Dalisi, ci sono elementi cruciali quali “l’uomo”, “la scelta” e “l’origine”. Quest’ ultimo è evidente anche nel titolo originale, East of Eden, in riferimento alla condanna subita da Caino a diventare «ramingo e fuggiasco» e ad allontanarsi verso l’est dell’Eden. La famiglia Trask, infatti, sulle cui dinamiche relazionali si basa l’intreccio, non intraprende l’utopica corsa al “far west”, alla ricca terra occidentale tanto agognata dai pionieri, ma si indirizza verso l’oriente, nella valle del fiume Salinas, quindi simbolicamente non a caccia dell’oro ma di un plumbeo nodo sotterrato a est dove però sorge anche il sole della coscienza. La ferita-feritoia sulla quale si affacciano quasi tutti i personaggi è vertiginosa e si precipita in un magma in cui sguazzano svariati comportamenti: c’è chi fatica drammaticamente a liberarsi da un ineluttabile senso di colpa, chi resta paralizzato e non sceglie, chi è incapace di contemplare la bontà e freddamente sparge un male fine a se stesso. Si getta luce in tal modo su una visione alternativa del significato del peccato originale, non più conseguenza di una disobbedienza, ma legato al concetto di un’azione che si fa prevaricazione ed egoismo: «Il vero peccato di Caino – svela Antonio Latella – è nell’intenzione alla base del suo sacrificio a Dio. Lo ha fatto per interesse. Il vero dono è gratuito e non vuole nulla in cambio. È lì che nasce il peccato originale che poi ha dato origine alla catastrofe dell’uomo che oggi chiamiamo capitalismo».

Il regista campano nel far vivere sul palco il mastodontico racconto di Steinbeck non elude dunque le inquietudini esistenziali e l’afflato universale che sottendono agli accadimenti quotidiani che si susseguono, anzi anch’egli ha come fatto un viaggio verso il principio e la quintessenza del teatro. La parola infatti domina, guida, agisce: «Era importante – spiega Latella – che il pubblico potesse seguire lo spettacolo a occhi chiusi». In apparenza si va contro la grammatica consueta della prossemica teatrale, gli attori siedono spesso spalle alla platea, in statica posa, anche le colluttazioni o gli scontri fisici sono cristallizzati ed evocati attraverso dei “fermo immagine”, ma vitalità e movimento sono garantiti ugualmente dalla dinamicità e possanza verbale. «Una parola verticale non orizzontale», precisa il regista, che porta gli interpreti, tutti all’altezza e con un Michele Di Mauro impeccabile, a «suonare jazz» più che a recitare, scoprendo ogni volta il senso di ciò che si dice come fosse la prima volta. Non è nuovo invece Latella a queste operazioni da rabdomante del teatro in grado di estrarre linfa vitale intuendo le potenzialità sceniche della letteratura che scava nelle finalità dell’esistenza umana. Un’esperienza dunque che regala una suggestione piuttosto rara per chi frequenta assiduamente le platee, ovvero quella di avvertire la nitida, affilata e quasi imbarazzante sensazione che il personaggio sul palco stia parlando proprio a te, alla tua vita. Emozione ancora più insolita se si ha l’onore e l’onere di assistere alla versione integrale dello spettacolo, una maratona, coraggiosamente prodotta dall’Ert, di sette ore che però il pubblico potrà fruire in due diverse serate. Il merito va a tutti gli artefici di questa impresa ma forse in primis alla «straordinaria bellezza del pensiero», citando il servitore Lee del romanzo, perché il «pensiero – come ammette lo stesso Latella – è la cosa che più ci avvicina a Dio».

di Michele Sciancalepore, fonte Avvenire

13 Novembre 2019