Martedì in seconda serata

È stato prima isolato nel suo monolocale al centro di Roma, poi si è rifugiato nella campagna umbra ma non ha mai smesso di elaborare pensieri, partecipare a dirette streaming e realizzare lavori pensati ad hoc per gli internauti. Ma Massimo Popolizio in questi mesi di forzata astinenza teatrale non è stata una falena frenetica accecata dalla luce del proprio ego, piuttosto un leone indomito a caccia di una via di uscita alla paralisi e soprattutto in cerca di una soluzione al teatro della convivenza col rischio contagio. «Immaginare, immaginare, immaginare» è il verbo che ripete con l’ossessivo ardore di chi ripudia qualunque geremiade e ogni forma di autocommiserazione ed è invece convinto che solo attraverso la bellezza e la fecondità della creatività si potrà rinascere. Non si pensi però che abiti in lui una luminosa e fiduciosa prospettiva; d’altra parte ha dovuto interrompere il 23 febbraio l’acclamata tournée di Un nemico del popolo, Premio Ubu 2109 come miglior spettacolo dell’anno con lui regista e protagonista. Preoccupazione e amarezza dunque per la sopravvivenza quotidiana della sua compagnia lo attraversano, così come lo pervade un’indubbia idiosincrasia a ogni declinazione di facile e ottimistica retorica sul teatro che risorge dalle proprie ceneri. E con la sua proverbiale schiettezza denuncia pericoli e inganni in agguato con la riapertura dei teatri: «Potremmo pure risolvere il problema sanitario con la riduzione del numero degli spettatori in sala – osserva Massimo Popolizio – ma cosa portiamo in scena? Una serie di monologhi? Testi a due attori? Soluzioni poco dispendiose e pratiche? No, ci vuole un’invenzione. Se decidi di uscire e di andare a sfidare il Covid-19 in un teatro probabilmente vuoi anche vedere qualcosa che ne valga la pena. Bisogna costruire un prodotto importante, mentre ho il sospetto che tutte queste invocazioni alla riapertura dei teatri servano per mantenere il contenitore aperto ma vuoto di contenuti perché sarà difficile vedere spettacoli qualificati e corali».

Il teatro è storicamente sopravvissuto a qualunque crisi, persino ai drammi bellici e nessuna scoperta tecnologica lo ha soppiantato. Ma la negazione della relazione, il divieto di fare comunità ha negato la sua quintessenza e la sua ragione d’essere. Che fare allora? Aspettare che «passi la nottata»? «In realtà non è il virus che ha ucciso il teatro, ma la burocrazia. Ho l’impressione che a tutti vada bene fare molto poco perché l’interesse è concentrato non su ciò che succede sul palcoscenico, ma su tutto quello che c’è intorno, su come rimettere in moto l’intero apparato amministrativo. Oggi il virus ha fatto una radiografia a tutto ciò che non funziona: solo il 25% di tutto il denaro messo a disposizione arriva per la produzione, il resto serve a mantenere in piedi la baracca. Se c’è qualcosa di vitale e sensibile sono gli attori, ma chi li ascolta? Paradossalmente la tecnologia potrebbe salvare nell’immediato il teatro, ma con un’operazione altamente professionale e articolata con materiali letterari e documentaristici fruibili dal vivo e anche su altre piattaforme. Insomma bisogna inventarsi qualcosa di nuovo con il supporto di altri strumenti, ma in modo immaginifico, non ci si può accontentare di una serie di monologhi che sono la scorciatoia più banale e deprimente».

Secondo Popolizio c’è stata la tendenza in questa emergenza a considerare le esigenze e le problematiche degli artisti come secondarie rispetto a più urgenti e impellenti necessità? «Se noi dobbiamo mettere sullo stesso piano l’emergenza sanitaria e quella culturale è indubbio che la prima prevalga. Ma non bisogna fermarsi a questo, non si deve arrivare a buttare il resto dalla finestra. La percezione comune è che l’attore sia sempre e soltanto quello che passa in televisione e che è pure fortunato perché il suo non viene considerato nemmeno un lavoro ma un divertimento, una forma di espressione del suo io interiore, un privilegio che di per sé è già remunerativo. Abbiamo sempre dovuto lottare per autodefinirci. E la retorica del teatro paladino della cultura è stata contro-producente perché invece bisogna combattere per farci riconoscere come semplici lavoratori che a volte riescono anche a fare arte, ma che primariamente svolgono un’opera socialmente utile».

Tornando all’immediato futuro quali prospettive? «O ti fermi e aspetti, però ti pagano perché ho diritto anche io a una cassa integrazione minima come un qualsiasi operaio per campare, oppure si apre ma mi fai recitare e mi fai assumere e accettare la percentuale di rischio. Vivere con il Coronavirus significa saper accettare la morte. Non abbiamo alternative perché non ci sarà mai un datore di lavoro che si assume da solo la responsabilità di fare uno spettacolo senza le misure di sicurezza. Nessun produttore aprirà mai un teatro o un set cinematografico se la responsabilità non verrà condivisa».

Perché è una necessità riprendere a fare teatro? «La necessità di fare teatro è estremamente personale. Io ho iniziato a farlo perché volevo uscire di casa, eravamo tanti in famiglia, tutti in un’unica stanza e ho fatto tutto il teatro amatoriale che si poteva fare a Roma perché per me recitare era una boccata di ossigeno. L’epidemia ci ha messo di fronte a una prova ineludibile e a una severa selezione: chi è che oggi vorrà ancora portare avanti questo mestiere nonostante tutto? Quelli che avranno ancora questa forza saranno dei sopravvissuti fortemente immuni e colmi di anticorpi».

Quale è stata la fragilità più dolorosa che Popolizio ha vissuto in questi giorni? «La solitudine e la mancanza di lavoro. Non so stare da solo, mi deprimo, piango. E non so stare senza lavorare perché vengo dal teatro con Ronconi in cui eri assorbito totalmente non da problematiche filosofiche ma dalle questioni concrete della messinscena, vengo dalle lunghe tournée che ti tolgono dalle bruttezze della vita».

Potrà sembrare utopica e naïve la domanda, ma quale sarà il prossimo spettacolo? «Sto pensando a un testo che si dovrebbe chiamare I pulitori, saremo tutti, rigorosamente con le mascherine, operatori di un’impresa di pulizia di un hotel e il “pulitore” vive in sei stanze d’albergo sei storie diverse a seconda del cliente a cui pulisce la camera. Ma per ora pianto fiori: rose, lavande e rosmarini».

Che dire agli spettatori in previsione della riapertura dei teatri il 15 giugno? «State fermi che arriviamo. Non siamo morti. Quello che ci può uccidere è la burocrazia, ma siamo vivi, certo arrabbiati, ma vivi». RIPRODUZIONE RISERVATA

di Michele Sciancalepore, fonte Avvenire

20 Maggio 2020