Martedì in seconda serata

Venezia «Il teatro italiano è vivo, sta benissimo, forse sono un po’ morti i direttori artistici». Schietto, laconico e controcorrente Antonio Latella che, giunto al quarto e ultimo anno di direzione della Biennale Teatro a Venezia, non nutre dubbi sullo smagliante stato di salute dell’arte di Dioniso nel nostro Paese. Perplessità invece lo attraversano quando constata l’inerzia e la pavidità di alcuni suoi colleghi alla guida di teatri stabili incapaci di cogliere l’opportunità che l’inedita stagione post lockdown ha offerto: «I teatri in questo periodo – spiega Latella – sono stati sdoganati dalla tirannia dei numeri non dovendo più necessariamente riempire le sale, ma questo invece di alzare l’asticella, di indurre finalmente a realizzare progetti nuovi non necessariamente protetti, ha comportato scelte stantie». In pratica ci si è rifugiati ancora una volta nell’usato comodo e sicuro. Fermamente intenzionato a combattere questa mancanza di intraprendenza produttiva Latella ha deliberatamente fatto un salto nel vuoto, senza rete né certezze, ospitando 28 titoli, tutte novità assolute, tutti italiani, tutti giovani, ignorati dai cartelloni istituzionali a cui ha chiesto di elaborare spettacoli sul tema della censura. Al termine di questo 48° Festival Internazionale del Teatro si può lecitamente affermare che Latella sia caduto in piedi e che il rischio e l’audacia hanno dato frutti nel complesso accattivanti.

Coraggio e spregiudicatezza non difettano al talentuoso regista under 30 Giovanni Ortoleva che decide di allestire il più rimosso, verboso e scandaloso dei testi di Fassbinder: I rifiuti, la città e la morte. «Quest’ opera – svela Ortoleva – mi ha colpito per i paradossi che contiene: parla incessantemente di amore senza mai che trovi alcuno spazio, il sesso poi la fa da padrone a livello verbale ma non si assiste mai a un contatto. Infine c’è un grande concentrato umano ma nessuna empatia. In pratica un’abissale solitudine nella folla». Un disperante solipsismo impera in effetti nella città-contenitore di rifiuti umani che ineluttabilmente si rivelano moribondi o mortiferi in questo controverso testo di Fassbinder vietato sui palchi dal 1975 fino al 2009 perché accusato di antisemitismo. Lo scandalo fu causato perché tra i personaggi figura un «ricco ebreo», spregiudicato, spietato e inviso speculatore immobiliare che riempie di denaro la giovane prostituta Roma B. interpretata da una duttile Camilla Semino Favro abilissima nel coniugare lirismo e trivialità. Presentare i lati oscuri di un ebreo era però inconcepibile nella Germania degli anni ’70 anche se in realtà Fassbinder tratteggia un’umanità tutta corrotta e criminale, dal marito-lenone di Roma B. in grado solo di umiliare o di farsi sottomettere, al padre della meretrice a sua volta ex nazista che si traveste e si esibisce in patetiche esibizioni canore. La regia di Ortoleva orchestra efficace- mente questo funambolico e barocco circo di alienazioni ponendo al centro della scena un’emblematica passerella sulla quale sfilano o si affollano i protagonisti destinati a una tragica e grottesca fine. L’effetto complessivo è controverso: da un lato tutto è espressionistico e penetrante, dall’altro si rischia un’esondazione immaginifica e sonora che può indurre al blackout.

Nero, vuoto, assenza e cortocircuito scenico sono tutti ingredienti che invece i Babilonia hanno scientemente fatto confluire in Natura morta, un altro titolo che non a caso contiene la parola “morte” che si rivela ancora una volta capace di innescare un fertile processo creativo. I morti o, meglio, gli zombie siamo noi, spettatori-attori, protagonisti passivi occupanti in cerchio lo spazio scenico di uno spettacolo che non c’è. Insomma il “chi è di scena” si ribalta in “tutti in scena” e per giunta necessariamente con gli smartphone accesi, la suoneria e la luminosità degli schermi al massimo perché è attraverso le nostre protesi tecnologiche che si svilupperà l’inazione drammaturgica. Prima di entrare infatti si fornisce il numero di telefono e si entra a far parte di un gruppo whatsapp denominato “Natura morta” e, tranne un paio di brevi atti performativi che fanno da prologo ed epilogo alla rappresentazione, tutto il resto è chat. Coi volti resi vitrei e spettrali dalle luci degli schermi, con le orecchie martellate dai suoni delle notifiche che echeggiano come lugubri rintocchi di campane a morto, si viene inondati da centinaia di messaggi che dei Babilonia conservano lo stile lapidario, il ritmo incalzante, la scarna asciuttezza, la spiazzante ironia. Sono perlopiù domande demagogiche o logiche, populiste o realiste, sensate e insensate con lo scopo di evocare il chiassoso e liquido mare magnum del web dove tutto si prende ma non sempre si apprende, spesso ci si scontra, raramente ci si incontra. Solo nella parte conclusiva della chat dalla raffica degli stranianti quesiti si passa a una condivisione disarmante sulle ragioni dell’assenza scenica: «Ho deciso di censurare la mia presenza / il mio corpo oggi è assente / è un corpo infetto / è un corpo oggetto di statistiche / immune o malato / sintomatico o asintomatico / è un corpo negato / controllato e regolamentato / è un corpo distanziato / è un corpo icona / nonostante tutto il mio corpo è ancora vivo ». Dopo questa confessione via chat arriva il finale, antico e fisico, un coup de thé’tre vivo e reale: quattro culturisti, due uomini e due donne, con i loro corpi palestrati sfilano sulle note di That’ s life di Frank Sinatra. Una visione che in epoca precovid avrebbe suscitato scherno e antipatia ora crea nostalgia ed empatia. In quest’ ultima creazione, dunque, resta la cifra fortemente provocatoria di Valeria Raimondi ed Enrico Castellani dei Babilonia Teatri; certo non c’è più la coralità rap di Made in Italy, come d’altronde manca la valenza iconica e problematica di Jesus, o la forza dirompente della sofferenza e del disagio come in Pinocchio, ma c’è un indubbio e sincero pericolo che la coppia veronese ha voluto esorcizzare: la negazione del teatro celebrata attraverso un implicito funerale. Una morte paventata, ma come preludio per una resurrezione perché come fiduciosamente e perentoriamente afferma Antonio Latella: «Se la tecnologia ci ha fatto piegare la testa, il teatro resta l’unico spazio in cui devi per forza alzare la testa».

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di Michele Sciancalepore, fonte Avvenire

29 Settembre 2020