Gifuni, squarcio i silenzi su Moro
Alcuni fogli sparsi per terra formano un perimetro, un tavolino e una sedia sono un po’ decentrati, un microfono campeggia in mezzo alla scena leggermente rialzata, un fondale anonimo rifletterà cromaticamente le diverse pulsioni ed emozioni che si succederanno. In questo palco spoglio entra Fabrizio Gifuni, conquista il proscenio e con un prologo di una decina di minuti si rivolge direttamente alla platea illustrando la genesi dello spettacolo, fornendo una dettagliata analisi del quadro storico in cui è incorniciato e annunciando un «esperimento»: verificare se i prolifici e densi scritti che Aldo Moro elaborò dal 16 marzo al 9 maggio del 1978, durante i funesti 55 giorni della sua prigionia con le Brigate Rosse, abbiano ancora, come un meteorite proveniente da un lontano passato, una carica magnetica e una temperatura in grado di produrre un riverbero nelle nostre menti e nei nostri corpi.
L’oggetto quindi di questo empirico test sono i tanto famosi quanto rimossi 419 fogli che comprendono il memoriale di quasi 250 pagine e una novantina di lettere indirizzate a familiari, figure politiche e istituzionali. Quindi ancora un’opera dell’ingegno sul “caso Moro”? Niente affatto. L’ennesima disamina, indagine, riflessione sui controversi, tragici fatti di quei cupi e intricati anni di piombo? Tutt’altro. Al Piccolo Teatro Grassi di Milano fino a oggi (e a metà gennaio, Covid permettendo, al Teatro della Pergola di Firenze) si assiste a qualcosa di mai visto, né sentito: Con il vostro irridente silenzio di e con Fabrizio Gifuni. Spettacolo mai udito prima perché quel fiume di parole ricercate e raffinate, chiare e profonde, sferzanti o struggenti, lucide o passionali, dolci o dirompenti dello statista democristiano non ha mai realmente irrigato le nostre menti e le nostre coscienze ed è stato due volte inaridito e prosciugato. Solo otto furono infatti le lettere divulgate durante la prigionia di Moro e solo 10 su 245 le pagine del memoriale che le Brigate Rosse diffusero. Ma un secondo altrettanto assordante silenzio ed eclatante rimozione ha riguardato il voluminoso materiale scritto. E in questo caso le Br non c’entrano, c’entriamo noi. Ma il reading di Gifuni oltre che inaudito è anche inedito perché in questo caso non c’è alcuna narrazione o interpretazione degli avvenimenti bensì unicamente un’incarnazione delle parole, solo quelle di Moro, una selezione di una quarantina di brani fra missive e stralci del memoriale.
È un far risuonare il verbo nel proprio corpo che risulta evidente quando dopo il copioso e colloquiale prologo Gifuni innesca un repentino cambio di tensione, raccoglie da terra un po’ di cenere e imbianca un ciuffo di capelli, poi sembra come percorso da alcune quasi impercettibili scosse di corrente e da quel momento per 115 minuti diventa lui stesso un inarrestabile flusso di coscienza, travolgente o avvolgente, dirompente o dilatato, in cui è comunque l’animo a guidare la comunicazione. Alla fine risulta evidente che il meteorite è ancora caldo, l’esperimento perfettamente riuscito e la platea fortemente elettrizzata.
Ma non mancano le domande da porre all’autore e interprete di questa alchemica esperienza teatrale, a partire dalla scelta del titolo: «”Con il vostro irridente silenzio” – spiega Gifuni – è l’incipit di una frase contenuta in una delle ultime lettere indirizzate alla Democrazia Cristiana. È di una bellezza e potenza lessicale inusitata e fa parte di una serie di invettive durissime che Moro lancia contro i suoi ex colleghi di partito che lo hanno destituito nella sua parola e nella sua persona. Gli viene infatti platealmente detto: “Tu non sei Moro, le tue parole sono quelle di un uomo forse drogato, vittima della sindrome di Stoccolma, probabilmente impazzito”». Un’altra implicita ma ineludibile questione che ci investe durante questo viaggio nei pensieri del grande politico rapito e ucciso riguarda il generale disinteresse nei confronti dei suoi scritti una volta misteriosamente ritrovati. La risposta che mi do è che in questi decenni molti di noi hanno più o meno supinamente accettato un’alienante deviazione secondo cui la memoria storica di questo Paese è una faccenda abbastanza inutile, una perdita di tempo, in alcuni casi anche pericolosa, che ci confonde le idee perché siamo in un’Italia nuova che deve recidere i contatti con le proprie radici e il proprio passato, quindi perché parlare dei campi di concentramento, della Resistenza, della Costituzione, perché parlare delle carte di Moro? Il risultato è che senza memoria si può dire tutto e il contrario di tutto e cambiare le carte in regola ogni giorno. È diventato divisivo parlare del 25 aprile ad esempio ed è passato il concetto che andare a ficcanasare sui fatti del nostro passato contribuisce a confonderci le idee e non a renderci consapevoli del nostro presente. La scrittura turgida e accattivante di Aldo Moro è il riflesso della sua ricchezza e complessità concettuale e solleva il problema dell’attuale impoverimento del linguaggio e semplificazione del pensiero. Pensare ci costa fatica e usiamo un numero miserabile di vocaboli. E questa povertà di parole e di pensiero investe anche la politica. Come deve essere un politico? Deve essere una persona che assomiglia al vicino di casa? Che ci racconta cosa mangia, dove va al mare, su quale barca sale, a quale sagra va? Oppure è uno diverso da noi perché ha fatto altri studi e al quale abbiamo delegato di fare qualcosa che noi non siamo in grado di fare? Moro non semplifica il suo linguaggio, non si adatta a parlare per slogan, perché la realtà è complessa, spesso un intrigo difficile, e non tutto può essere bianco o nero. Lo spettacolo è lungi da essere una canonizzazione di Moro bensì offre un quadro di luci e ombre sulla sua personalità. Quale la luce più luminosa e l’ombra più tenebrosa? La luce è quella di un uomo che parla in spirito di verità, ci fa un dono enorme, ci restituisce il ritratto autentico di un Paese e di un periodo storico. La parte più scura, più violenta è sempre vera ma dura e racconta cosa è un uomo di Stato nei suoi aspetti più bui, le sue pagine finali raggiungono un livello di indagine negli abissi delle oscurità dell’animo umano degne dei personaggi scespiriani. Lui stesso confessa di essersi trovato di fronte a vicende talmente abitate dal male da dover distogliere lo sguardo. Mai un uomo politico ha fatto una simile ammissione».
Veniamo all’hic et nunc, al «qui e ora»: Fabrizio Gifuni, che in scena si nutre dell’energia, del respiro degli spettatori in sala, come sta vivendo queste, purtroppo necessarie, limitazioni? «Vivo sera per sera, cerco di accogliere quello che c’è. Ci sono aspetti anche sorprendentemente positivi, come ad esempio l’assenza dei colpi di tosse in sala, da quando c’è il Covid nessuno tossisce più in platea, non c’è più nessuna raucedine. Comunque cercare di creare un respiro comune con spettatori mascherati è difficile, vedere gli spazi vuoti, questi varchi in cui si disperde l’energia del pubblico è più faticoso ma si fa, e poi «ha da passa ‘a nuttata!».
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di Michele Sciancalepore, fonte Avvenire
22 Ottobre 2020