Se il teatro è una casa la “Zona rossa” è al Bellini
Si fa presto a dire «riapriamo i teatri, il teatro è la nostra casa, non possiamo farne a meno» e altre amenità del genere che sanno tutte di verità ma che ormai sanno anche di mantra sempre più diafani e retorici perché al verbo non ne consegue alcuna azione. Provate invece a rinchiudervi in teatro, ma concretamente, con il corpo e con la mente; provate a farlo diventare davvero il vostro focolare domestico, a dormire in un camerino di tre metri quadrati, a condividere un bagno con doccia dall’esile e tiepido gettito d’acqua; provate a fare a meno di sole e aria aperta e a esporvi costantemente ai proiettori, neon di servizio e a respirare non poeticamente e metaforicamente ma fisicamente la polvere del palcoscenico. E non per un giorno ma per più di 50 notti e dì, almeno fino a oggi. E non è ancora finita perché i sei giovani artisti (ora cinque, uno di loro ha mollato), che il 20 dicembre aderirono all’impresa di imporsi un volontario lockdown duro auto-recludendosi nel teatro Bellini di Napoli fino alla tanto sospirata riapertura dei teatri, stanno ancora lì, prigionieri di una triplice “pro”: protesta, provocazione e produzione di uno spettacolo.
Si chiama Zona Rossa questa iniziativa, ideata da Daniele Russo e Davide Sacco, che quando fu lanciata ebbe anche una certa eco mediatica, complice la scelta di piazzare le telecamere all’interno del teatro per mandare in streaming il vissuto dei sei reclusi suscitando così il parallelismo col Grande Fratello televisivo qui in salsa teatrale. In realtà nulla di più fuorviante perché non c’è in questo caso voyeurismo né morbosità, non sono le pruriginose dinamiche relazionali al centro dell’occhio diaframmatico bensì il processo creativo che porta alla costruzione di una pièce teatrale, ovvero far vedere un attore prima della messinscena, con le fatiche, gioie e dolori, tensioni ed emozioni del suo quotidiano, in una sola parola il ‘retroscena’, con l’obiettivo primario di divulgare una percezione sempre ignorata finora: quella che chi opera nello spettacolo sia un lavoratore alla stessa stregua di un operaio nella fabbrica.
Alfredo Angelici, Federica Carruba Toscano, Licia Lanera, Pier Lorenzo Pisano e Matilde Vigna, gli attuali cinque segregati del Bellini, non hanno però alcuna pretesa di passare per eroi o martiri, sono in realtà accuditi, premurosamente rifocillati, come si evince dalle dirette streaming, piuttosto rivendicano semplicemente la possibilità di una vita artistica ormai da troppo tempo negata e speravano con la loro azione politica e polemica di innescare un effetto a valanga che in realtà non c’è stato, si illudevano di essere i pionieri di un’iniziativa che avrebbe dovuto nelle loro intenzioni creare dei proseliti. Invece una coltre di oblio rischia di seppellirli. È questa attualmente la loro più grande paura, la ‘dimenticanza’, oltre al timore di ingrassare o di vedere la pelle seccarsi per penuria di fotosintesi. Ma sotto le loro angosce e fragilità sta covando un forte coraggio pronto a emergere probabilmente a breve in modo anche piuttosto eclatante. Un’audacia che, come spiega Daniele Russo, curatore del progetto e presidente del Teatro Bellini, nasce da una presa di coscienza non più procrastinabile: «Ci sono contraddizioni che non spiegano e non giustificano più la chiusura dei teatri. Ad esempio, se si volesse, qui all’interno del Bellini, si potrebbe fare un comizio politico. Ma io invece sempre in questo stesso teatro non posso fare uno spettacolo; è un cortocircuito che non capisco e non mi sta più bene. E allora trasformeremo lo spettacolo che i ragazzi stanno creando in un comizio politico». Sicuramente quest’ azione di rottura non sarebbe una forzatura. La valenza e la vis politica di questa creazione, frutto di una convivenza artistica e umana forzata ma voluta, è innegabile e prorompente anche solo dopo aver assistito a una ‘filata’ ancora approssimativa. Si preannuncia in effetti come una condivisione col pubblico che, pur partendo da una «visione endoscopica», come precisa Licia Lanera, regista e drammaturga della performance insieme a Pier Lorenzo Pisano, pur scandagliando e scavando nelle viscere e nei meandri della mente e della psiche di ogni singolo interprete, fa emergere le istanze e le esigenze oggettive della polis.
È in pratica un diario del loro vissuto, dagli incubi del disfacimento corporeo alle ansie per il sempre più svuotato senso del teatro, dall’esilarante messaggio di insofferenza per la mamma spettatrice compulsiva delle prove in streaming alle opportune citazioni da Antonio Tarantino, Martin Crimp e Antonio Gramsci. Sembra tutto dipanarsi dunque in modo autobiografico e auto-biologico, cronachistico e cronologico, crudo e crudele, ma alla fine ciò che resta è verità lirica, un flusso di coscienze soggettive che dà corpo a collettive prese di coscienza. Insomma si resta catturati da una fruizione fluida e armonica anche se scaturisce da precise ferite individuali e pur guidato da una doppia inedita regia, bicefala ma non schizofrenica. Il nome che avrà lo spettacolo non è dato al momento saperlo; l’idea è di utilizzare come titolo il numero dei giorni maturati di autoreclusione vissuti in teatro; giorni bui che però non hanno spento nei loro animi la voglia di donare sogni «in presenza»: «Più andiamo verso tempi frenetici e ipertecnologici – asserisce convinto Daniele Russo – più la polvere e l’artigianato del teatro vincerà. Fino a quando sarà così non svegliatemi». RIPRODUZIONE RISERVATA
di Michele Sciancalepore, fonte Avvenire
9 Febbraio 2021