Martedì in seconda serata
Un momento dello spettacolo “La mafia” di L. Sturzo – regia di P. Maccarinelli – ph. Tommaso Le Pera

«La mafia stringe nei suoi tentacoli giustizia, polizia, amministrazione, politica; oggi serve per domani esser servita, protegge per essere protetta, ha i piedi in Sicilia ma afferra anche Roma, penetra nei gabinetti ministeriali, nei corridoi di Montecitorio, viola segreti, sottrae documenti, costringe uomini creduti fior di onestà ad atti disonoranti e violenti Sin che vi era una magistratura incorrotta, superiore a qualsiasi influenza po-litica, potevasi sperare, poco sì, ma qualche cosa di buono. Ora nessuna speranza brilla nel cuore degli italiani».

Non sono parole di Giovanni Falcone, né di Paolo Borsellino, non sono contenute in nessuna delle disperate denunce dei due martiri laici e nemmeno in quelle di altri magistrati antimafia. I lettori più attenti avranno infatti notato qualche lieve anacronismo lessicale, in ogni caso è un colpo di scena e un colpo al cuore scoprire che così argomentava in un articolo sul periodico La Croce di Costantino nel febbraio del 1900 don Luigi Sturzo alla vigilia del debutto al Teatro Silvio Pellico di Caltagirone del suo dramma in cinque atti, da lui laconicamente e crudamente intitolato La Mafia. Centoventuno anni fa, quando la mafia non era “la piovra” bensì un termine che evocava un fenomeno territoriale ammantato di pittoresco folklore e da molti considerato necessario all’equilibrio sociale, il futuro fondatore del Partito Popolare denunciava apertamente «le male bestie», come senza ambiguità le chiamava, svelava i gangli mefitici e melmosi che legavano la malavita organizzata alla politica e alla giustizia e aveva già individuato il salto di qualità da locale a nazionale, se non globale, dell’organizzazione criminale.

E la sua analisi non è mai vaga e retorica, ma sempre circostanziata e dettagliata, mai contorta e oscura, ma sempre diafana e trasparente, così come sconcertanti alcune sue conclusioni: «E la rivelazione spaventevole dell’inquinamento morale dell’Italia sono le piaghe cancrenose della nostra patria, la immoralità trionfante nel governo». Accuse che fanno risuonare nella mente le note e i versi della canzone di Franco Battiato Povera Patria: «Schiacciata dagli abusi del potere, di gente infame, che non sa cos’ è il pudore Nel fango affonda lo stivale dei maiali». Ma Sturzo alle metafore canore preferisce il linguaggio schietto e diretto della dialettica teatrale per inscenare una delle pagine oscure della novella Italia, l’omicidio avvenuto nel 1893 del cavalier Emanuele Notarbartolo, direttore del Banco di Sicilia, ex sindaco di Palermo e deputato del Regno. Un delitto eccellente per cui la pubblica accusa aveva individuato come mandante l’onorevole Raffaele Palizzolo, condannato in primo grado per poi, con mirati e strategici depistaggi, essere assolto in appello. Sullo sfondo di questo dramma di cronaca vera emerge la visione etica e politica di don Sturzo che non nasconde le dinamiche della lotta fra il bene e il male facendo esternare così al protagonista “buono” della sua pièce l’ardimento di chi non vuole arrendersi alla tentacolare corruzione mafiosa: «A trentadue anni non può, non deve entrare la disfiducia nel cuore che in questa mia terra natale sia perduto il senso dell’onestà non mi toglierete la speranza di salvare la patria».

Un altro non meno eclatante coup de théâtre stato prendere atto che dopo il debutto del febbraio del 1900 nel piccolo teatro della provincia siciliana La Mafia non ha calcato più alcuna scena e ha vissuto una stagione, lunga 121 anni, se non omertosa di certo obliosa. Almeno fino ad oggi, fino a quando Piero Maccarinelli, con il patrocinio dell’Istituto Luigi Sturzo, rispolvera il dimenticato testo, lo riduce e adatta, lasciando però volutamente gli arcaismi un po’ desueti del linguaggio, e lo ha portato in anteprima sulle tavole del Teatro Studio Eleonora Duse di Roma e poi presentato in prima nazionale al Teatro della Pergola di Firenze. E Maccarinelli non nega di essere restato lui in primis sconvolto dal coraggio e dall’analisi lucida e profetica del presbitero e politico siciliano: «È terribile pensare che Luigi Sturzo ha scritto questo testo nel 1900 soprattutto se pensiamo che la parola “mafia” è stata sdoganata negli anni ’70 nel nostro Paese. In questo dramma non si fa riferimento ai piccoli ricatti, al grossolano meccanismo del “pizzo”, bensì alle profonde collusioni fra potere locale e potere centrale, al controllo della prefettura, della procura della Repubblica, alla manipolazione dei processi, persino al meccanismo distorto dell’innescare le inchieste giudiziarie amministrative per ritardare l’iter di quelle penali. Aveva capito tutto».

Intrighi e manovre criminali che l’autore dipana nella sua opera con un linguaggio limpido e aperto. Ed è un recitato pulito, elegante e diretto che Maccarinelli impone e ottiene dai dieci giovani interpreti provenienti dall’Accademia Silvio D’Amico di Roma e dal Teatro della Toscana di Firenze. Ne emerge uno stile interpretativo che risente di una certa rigidità accademica e le movenze risultano spesso statiche e ingessate, ma indubbiamente il rigore e la potenza della parola prevalgono a tutto vantaggio di una chiarezza espositiva che fa bene comprendere le complesse dinamiche relazionali dei vari personaggi. Tutto dunque nel corso dello sviluppo drammaturgico diventa atrocemente lampante, l’affarismo spietato della mala politica, l’avidità e la pavidità, l’illecito guadagno e il bieco inganno. Alla fine tutto è tragicamente compiuto: affossate le virtù degli uomini d’onore il disonore trionfa e il vile omicidio inesorabilmente si consuma.

Sembra così ancora una volta echeggiare invano il memorabile «Convertitevi!» di Giovanni Paolo II ad Agrigento nel 1993 o il più recente «Cambiate!» di papa Francesco del 2018 e sembra restare inevasa anche la domanda che lo stesso Sturzo sollevò sempre nel suo articolo del 1900: «E come potremo educare i nostri figli? Quali esempi daremo loro? Che speranze per il bene della patria desteremo nei loro cuori?». Maccarinelli però, alla luce di questa esperienza registica con i giovani attori, una speranza la coltiva: «Ho visto durante le prove dello spettacolo negli occhi di questi ragazzi il desiderio autentico e convinto di prendere coscienza di questa piaga sociale, di farne una conoscenza profonda e di raccogliere il testimone da chi l’ha denunciata per continuare a combatterla». RIPRODUZIONE RISERVATA

di Michele Sciancalepore, fonte Avvenire

18 Maggio 2021

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