Martedì in seconda serata

 

L’attore e regista romano Ascanio Celestini in scena con “Museo Pasolini”

Narni «Ma a questo punto non succede niente qui?», chiede il tecnico dal fondo della platea del Teatro Manini di Narni. «Veramente non succede niente per due ore», ribatte sorridendo Ascanio Celestini dal palco, seduto sulla sua solita seggiolina di legno pieghevole, sotto le lampade domestiche, all’interno della consueta scena minimalista praticamente in linea con quella di Radio Clandestina del 2000. Andare a vedere Ascanio Celestini, seppur in prova al teatro della cittadina umbra dove ha debuttato in anteprima col suo nuovo lavoro Museo Pasolini (l’1 e il 2 novembre all’Auditorium Parco della Musica per il RomaEuropa Festival), è sempre per certi aspetti consolante e rassicurante. Ci sono solide e familiari certezze: la scenografia povera, la sua proverbiale e gentile ironia, la sua narrazione fluida, colloquiale e impreziosita con inciampi, reiterazioni, digressioni pertinenti all’oralità e determinanti per irretire nella “fabula”. E poi si sa già che non accadrà nulla di spettacolare, nessuna azione rocambolesca, né colpi di scena o effetti speciali. Eppure accanto a queste pacifiche e statiche sicurezze immancabilmente succede qualcosa di profondamente spiazzante e sussultante per la mente e la coscienza e da ogni spettacolo dello storico affabulatore se ne esce scossi da una sequenza di picchi tellurici che fanno macerie di giudizi e pregiudizi e fanno affiorare originali agnizioni, inediti svelamenti, imprevedibili punti di vista.

È andata così anche stavolta e succede di tutto con Museo Pasolini, complice anche la vastità e la verticalità della creazione artistica e saggistica e dell’esperienza umana del poeta friulano. Il narratore romano ci guida in questa ipotetica esposizione partendo dall’assunto di Vincenzo Cerami il quale, negli anni ’50 allievo nella scuola media di Ciampino proprio di Pasolini che all’epoca guadagnava 27mila lire al mese, così definì la funzione cruciale e illuminante per il nostro Paese della sconfinata produzione del suo insegnante: «Se noi prendiamo tutta l’opera di Pasolini, dalla prima poesia che scrisse all’età di 7 anni fino al film Salò, noi avremo il ritratto della storia italiana dalla fine del fascismo fino alla metà degli anni ’70». In realtà, attraverso una narrazione per la prima volta rigorosamente cronologica, Celestini non si ferma al 2 novembre del 1975 e all’Idroscalo di Ostia, giorno e luogo del tragico ed efferato assassinio del poeta, ma va al di là di quella fatidica data e di quel desolato spazio di periferia per squarciare le coltri di ottusità e ignoranza che ammantano anche il presente: «Mi piacerebbe – confessa Celestini – che, una volta usciti da questo viaggio nel Museo Pasolini, ci si chieda: “E adesso? In che società vivo?”». Una domanda che inevitabilmente ci si pone dopo essere stati presi per mano e immersi in accadimenti privati e storici, in aneddoti immaginari e in rivelazioni appurabili, nel mondo pasoliniano più autentico e complesso e in quello parallelo frutto di ricerche sul campo di chi, proprio come il poeta, non ha mai smesso di indagare e dialogare con gli ultimi e gli sfruttati, dai lavoratori precari in Parole Sante ai disagiati mentali in La pecora nera. La genesi dello spettacolo su Pasolini, infatti, risale a un incontro che Celestini ha avuto con Graziella Chiarcossi, moglie di Cerami e cugina del poeta, che gli ha metaforicamente e concretamente aperto l’album di famiglia. Parallelamente Ascanio avvia la sua indagine sul territorio in via Sagunto al Quadraro, lo storico quartiere a sud-est della Capitale, tradizionale roccaforte antifascista e negli anni ’60 pullulante di migranti del sud Italia. È lì che Mamma Roma arriva, in un’emblematica scena dell’omonimo film del 1962 di Pasolini, con il figlio Ettore. È lì che Celestini intervista chi negli anni ’70 viveva nelle baracche dell’Acquedotto Felice. Ed è sempre lì che raccoglie l’edificante e struggente storia di “don Piccicola”, come viene rinominato nel suo racconto, nella realtà don Roberto Sardelli, il prete degli ultimi fra gli ultimi che andò a vivere in una di quelle catapecchie, vi fondò la mitica “Scuola 725” e, ispirandosi agli insegnamenti di don Milani, diede la sua vita per il riscatto esistenziale e morale dei baraccati di Roma, imparò il flamenco per dialogare con i rom e i sinti e infine profuse ogni energia per assistere i malati terminali di Aids. Museo Pasolini diventa così un geniale percorso ibrido in cui le vicende prettamente pasoliniane si fondono e dialogano con le testimonianze e le risonanze da esse evocate.

È una “full immersion” nelle pieghe e nelle piaghe della storia, della società e della vita che straripa di racconti e riflessioni che qui si possono solo richiamare rapsodicamente. Si passa dalla storia commovente e grandguignolesca dei fratelli “Sandrone”, morti di crepacuore, alla riflessione di Pasolini sull’immortalità della poesia («morirò io, morirà il mio editore morirà il capitalismo ma la poesia resterà inconsumata »); dalla storiella pedagogica del “buschesino”, il capostipite di tutte le merendine, all’oscuro, grottesco ma inquietante tentato golpe di Junio Valerio Borghese abortito «perché il vero colpo di Stato è quello che non c’è e il cittadino deve vivere nel terrore, con la pistola puntata alla tempia»; dalle reazioni all’omicidio in concorso con ignoti di Pasolini che mise tutti i suoi detrattori d’accordo in quanto intellettuale di sinistra ma «outsider e scomodissimo – come scrisse a caldo la giornalista Rossana Rossanda – perché battagliava contro il ’68, le femministe, l’aborto e la disobbedienza», alla lettura dei macabri dettagli del verbale che rende ancor oggi sconcertante la sua barbara fine. «Era il giorno 2 novembre del ’75, anno 53° dell’era fascista»: conclude con questa iperbolica provocazione Celestini la sua visita guidata al Museo Pasolini dove non è vero che non succede niente, dove si vive una costante inquietudine e, citando un refrain della narrazione, c’è «un vento sempre senza pace». RIPRODUZIONE RISERVATA

di Michele Sciancalepore, fonte Avvenire

25 Novembre 2021