Martedì in seconda serata
L’attore Marco Paolini in scena in “Sani!” accompagnato dalla cantante somala Saba Anglana e dal chitarrista Lorenzo Monguzzi / ph. Gianluca Moretto.

Siamo un castello di carte, in equilibrio precario, sempre sul punto di crollare. Per evitare il tracollo c’è una sola possibilità: affidarsi, reggersi reciprocamente, sentirsi attivi, parte in causa sì, ma non prioritari, superiori, autosufficienti. Nessuno può essere una carta isolata, ognuno è un ponte, un appoggio per l’altro. Solo così questa miracolosa cattedrale cartacea, paradigma dell’umana comunità, potrà restare eretta. È questo l’inequivocabile pensiero che si formalizza quando lo sguardo inevitabilmente viene catturato dalla gigantesca piramide formata da 37 mega-carte da gioco trevisane che troneggia sul palco del Piccolo Teatro Strehler di Milano. È questa la scenografia, per la prima volta simbolica e non strumentale, che Marco Paolini ha deciso di proporre per il suo nuovo spettacolo, Sani!, in scena fino al 5 dicembre. Il titolo fa riferimento all’espressione usata per dare il saluto nella valle del Piave; viene da Salus, “salute”, da cui deriva l’attuale Salve. Sani! è quindi un augurio, una benedizione, un viatico, ma è anche una boccata di ossigeno che all’inizio può far male ai polmoni quando la respiri perché te li riapre dopo tanta asfittica apnea, ma poi è salutare. Con Sani! si incassano pugni e si ricevono carezze. Sono duri, crudi e cupi gli inoppugnabili dati sul “peso del benessere”, sull’imminente sorpasso dell’artificiale sulla materia vivente, pubblicati sulla rivista Nature dal biologo israeliano Ron Milo, con cui Paolini sceglie di dare avvio alla sua narrazione. Ma infonde dolcezza e speranza rendersi anche conto che l’evangelica “vedova povera”, che dona tutto quel che aveva per vivere, è esistita davvero e nel maggio del 1976 si chiamava “Rosina” di Gemona che offre agli occasionali astanti tutto quel poco che aveva salvato dal terremoto, caffè con la moka e mezza bottiglia di grappa. Quest’ ultima creazione del pioniere del teatro civile riprende indubbiamente il filone degli album dei ricordi ma si arricchisce ancor più con agnizioni frutto di incontri, letture, esperienze vissute soprattutto con gli uomini di scienza, in particolare i biologi perché sono loro, secondo Paolini, che controllano il polso del paziente-pianeta.

Dall’epico-comico incontro-scontro con Carmelo Bene del 1983 allo scampato pericolo nucleare dello stesso anno grazie al coraggio del tenente colonnello Petrov, dalla ricostruzione in Friuli post-terremoto alla costruzione infinita delle cattedrali, dalla visionarietà di Gaudí che con la Sagrada Família non costruisce per sé ma per le generazioni future alla miopia di un Occidente silente, dormiente e di una «Europa impaurita, casa di riposo per anziani con piscina, con di fronte un asilo nido che non ti fa dormire» sono 105 minuti di una navigazione movimentata, a volte vertiginosa, altre più pacata, sempre intrecciata con il canto della splendida vocalist somala Saba Anglana e la loquace chitarra dell’immancabile Lorenzo Monguzzi. È quindi l’ennesimo accattivante flusso del capostipite dei narratori che ovviamente non ignora gli ultimi accadimenti pandemici, anzi li utilizza come trampolino per lanciare e auspicare a gran voce un nuovo “patto fra teatro e spettatori”: «Nessuno può bastare a se stesso – afferma perentoriamente Marco Paolini -. Bastare a se stesso è una visione neoliberale e non se la può permettere né il teatro né un cittadino. Un teatro politico oggi deve creare comunità, non può fondarsi sulle tribù, sulle appartenenze. Bisogna creare ponti. Mi viene in mente Vincenzo Linarello, responsabile di “Goel”, una rete di cooperative sociali che nella Locride ha creato solidarietà e un’economia positiva offrendo così un’alternativa alla disoccupazione o alla collaborazione con la ‘ndrangheta. Vincenzo dice che l’etica deve dimostrare di essere una pratica, non una mera categoria dello spirito; l’etica deve convincere nel concreto. Noi parliamo di “transizione” ecologica che è una parola neutra; il politico e scrittore Alexander Langer, di formazione cattolico-sociale, parlava di “conversione” ecologica che contiene un pensiero forte, ben determinato, mentre “transizione” è parola neutra molto vicino a transazione, non mette in discussione niente, non fa vedere niente. Noi artisti dobbiamo oggi essere determinati e concreti, non si può portare a casa il consenso, sprecare due ore per far sentire meglio e appagato chi ti ascolta. Non innescare dei dubbi, degli interrogativi, dei meccanismi che spostino la direzione è un fallimento».

Il sottotitolo dello spettacolo è Teatro fra parentesi. Quando per Paolini il teatro non sarà più una “parentetica” ma una “proposizione principale”? Quando l’Europa smetterà di dormire e si sveglierà. Questo è un continente soporifero. E allora che deve fare il teatro in un Paese come questo? Utilizzare tutti gli strumenti a disposizione per stimolare, risvegliare. È singolare che l’unica capacità di reazione da noi avvenga al di fuori della legalità, nella marginalità e con una propensione luddista. Vediamo impulsi infantili distruttivi che sono tanto più forti quanto il terreno sociale è per la maggior parte cementificato, asfaltato, non è più arabile ed è difficile smuoverlo, non si può vangare. Nello spettacolo a un certo punto viene parafrasato il premio Nobel per la fisica 1965 Richard Feynman dicendo: «Ciò che non riesco a spiegare con le parole non lo posso capire». È un po’ il dogma dell’oralità di Marco Paolini. Ma non solo parole, anche il canto, la musica sono fondamentali per una piena comprensione. La narrazione è un viaggio in barca a vela. La musica è la vela, le parole sono la zavorra, la proporzione fra le due serve a determinare direzione, stabilità, velocità. Mi sento imbarazzato quando mi manca la zavorra, quando alla fine dello spettacolo mi dico: ma ho detto quello che volevo dire? Era sufficiente? Ma se metto un po’ di peso in più veleggia ancora? È una questione di esperienza trovare l’affiatamento dell’equipaggio. Dopo anni di mestiere non sono convinto di aver capito come si fa però c’è una cosa: non ho tempo di stare ad analizzare, sperimentare per giungere all’equilibrio perfetto. Non ho tempo perché devo andare in scena adesso, non ho scuse, sento un’urgenza che non ho mai sentito da molti anni. In Sani! si tocca l’annoso tema dell’accoglienza. È una bomba, è un argomento che va maneggiato bene. Il problema è l’emergenza dilatata: come facciamo a protrarre nel tempo un’attenzione emergenziale su queste cose? La gestione emergenziale sta tirando fuori il peggio di noi. Però nello spettacolo si racconta di un sogno in cui basta un ribaltamento di ruoli e ritrovarsi nei panni del naufrago per capire tante cose. Bisogna infatti eliminare l’idea egocentrica del “se stesso”. L’isolamento individualistico è perfettamente funzionale alla deificazione del mercato che è diventato una realtà dogmatica che non ti fa guardare oltre il proprio naso, come avveniva ai detrattori di Galileo. Bisogna che arrivi qualcuno col cannocchiale che smuovi la cristallizzazione del mondo intorno a te. Sicuramente creare relazioni, non essere soli e isolati permette di essere un po’ più sereni nell’affrontare queste cose e meno spaventati davanti ai flussi migratori.

Le comunità rispetto alle monadi chiuse sono più in grado di contemplare soluzioni. «Non sarà più come prima» è stato il mantra dei tempi pandemici. Marco Paolini cosa vorrebbe che invece tornasse come prima? Mi piacerebbe fare le olimpiadi di teatro. Ogni 4 anni mollare tutto, prendere lo zaino e andare a sedere nel teatro di Epidauro in Grecia, con 15mila posti, un teatro in cui non serve il microfono, tutti ti sentono, organizzare una veglia e far venire scienziati mescolati con artisti. Ascoltare parole che smuovono davvero e poi andar via da lì guardando in faccia tutte le persone di buona volontà e sapendo che certe cose sono state condivise. Quello che non voglio più è la libera solitudine dell’artista. Voglio relazioni fisiche, la rete ma non quella virtuale. RIPRODUZIONE RISERVATA

di Michele Sciancalepore, fonte Avvenire

25 Novembre 2021