Martedì in seconda serata
L'attrice Laura Morante in scena con il melologo "Io Sarah, Io Tosca" / Filippo Manzini
L’attrice Laura Morante in scena con il melologo “Io Sarah, Io Tosca” / Filippo Manzini

Tentare di restituire l’essenza di Sarah Bernhardt è come voler far uscire la luce da un buco nero. La “divina” è stata un tale denso e intenso concentrato di attrazione gravitazionale con una personalità talmente poliedrica e travolgente, intricata e contraddittoria che il rischio di esserne inghiottiti diventa certezza. Laura Morante dimostra di amare le sfide impossibili e le imprese titaniche, parimenti alla grande attrice francese non difetta di coraggio, ci ha voluto provare e ha fatto la cosa più semplice e impegnativa: si è messa a studiare. Dopo aver letto ovviamente l’illuminante ma lacunosa autobiografia della Bernhardt ha divorato ogni genere di biografie, documenti, testi e, partendo da un melologo propostole dall’attrice e compositrice Mimosa Campironi, ha elaborato un’opera che sapientemente non mira all’esaustività ma all’incisività. La mitica interprete francese del XIX secolo viene presentata, attraverso tre quadri, nel periodo che precede il contestato ma trionfale debutto del dramma La Tosca che il drammaturgo Victorien Sardou aveva scritto per lei e che andò effettivamente in scena per la prima volta il 24 novembre 1887 a Parigi al Thé’tre de la Porte Saint-Martin. Ne è scaturito Io Sarah, io Tosca (fino a domenica al Teatro Ambra Jovinelli di Roma) che è un flusso incessante in cui il recitato spesso torrenziale della Morante dialoga con la musica della Campironi suonata al pianoforte da Chiara Catalano.

Una dialettica cercata, a volte un po’ forzata e pretestuosa, ma funzionale a innescare cambi di registro e a rendere più dinamico quello che sarebbe stato altrimenti un ininterrotto monologo. Nell’insieme si assiste a una partitura ariosa e articolata, fitta e dettagliata in cui Laura Morante riesce a suggerire la complessità dell’istrionica Bernhardt. Numerose sono le sfaccettature, gli svelamenti, le contraddizioni, le discese e le risalite, i successi e i fallimenti, i prismatici riflessi del temperamento di Sarah Bernhardt che Laura Morante è in grado di offrire attraverso un percorso non diacronico: dal suo carattere di indomita lottatrice («Le belve sono tutte fuori combattimento stanotte») alla sua proverbiale autoironia («Come combatterò i segni del tempo? Farò sradicare le prime due file di poltrone dalla platea e vieterò l’uso del binocolo»), dal suo rapporto con la morte («In teatro la morte è sempre trionfale, nella vita è banale») a quello con la recitazione («Io recito col pensiero dell’autore, non con le sue parole. Anche l’esterno va recitato. Se prima di entrare in scena il personaggio viene dalla strada si deve vedere»), dal suo rapporto conflittuale e turbolento con gli uomini («Voglio far soffrire l’amante, sentirlo imprecare perché solo il dolore che provoco mi fa sentire amata. E io voglio essere amata») a quello altrettanto ambiguo con la scaramanzia («Le superstizioni di tutto il mondo mi appartengono, faccio riti propiziatori, gesti apotropaici, scongiuri e poi li sfido»). Non manca il ricordo dello stuolo dei suoi adoranti ammiratori, da Oscar Wilde che le getta una manciata di gigli a Victor Hugo che in ginocchio e con le lacrime agli occhi le dice «grazie!», a Sigmund Freud che le dedica una pagina del suo diario («Ogni giuntura del vostro corpo recita con voi»). Insomma la Morante si dimostra assoluta padrona della sua drammaturgia, in novanta minuti non una sbavatura, né un minimo incaglio, nessun calo di intenzione e vince così la sua impeccabile prova di attrice nell’attrice. Si ha però la sensazione che a volte tutta questa perfezione resti come inchiodata sulle tavole del palcoscenico e non travalichi sempre il proscenio. Accade invece altre volte che ondate emotive investano la platea soprattutto quando dal caleidoscopico e traboccante scrigno dei ricordi affiorano i grumi di dolore.

Ed è la stessa Laura Morante ad ammettere che sono state proprio le ferite e la fragilità dell’attrice francese ad affascinarla particolarmente: «Sarah Bernhardt ha una storia incredibilmente dolorosa, ma mi ha colpito il suo straordinario coraggio: una donna intrepida che cade ripetutamente ma riesce sempre a risollevarsi dalle catastrofi finanziarie, dagli amori finiti male. Poi è anche una donna spregiudicata, astuta, un’abilissima venditrice di se stessa che però si è attirata una quantità d’odio mostruosa. Bisognava avere le spalle larghissime per sopportare e reggere le infamie, le accuse e le palate di livore che le gettarono addosso. È pure vero però che lei sfidava i nemici e in questo era unica ed eccezionale». Se Laura Morante potesse carpire una qualità, una peculiarità di Sarah Bernhardt sceglierebbe «il coraggio e la sua forte volontà di vivere, di superare tutte le difficoltà, di non lasciarsi sopraffare. Non a caso il motto della sua esistenza, le parole che avrebbero guidato ogni sua scelta e tappezzato ogni angolo della sua stramba e opulenta dimora, era “quand même”, “nonostante tutto”, come a dire “in ogni caso mi batto, non mi arrendo”». La Bernhardt affermò che «il successo imperituro non può essere raggiunto se non tramite uno sforzo intellettuale costante, sempre ispirato da un ideale». E l’ideale che ispira Laura Morante è «la sincerità. Io penso che ogni volta che ci si accosta all’arte si ha a che fare con la verità, con l’onestà. Considero l’estetica un valore etico e le due cose per me sono indistinguibili. Se un libro mi piace non è mai per i virtuosismi dello scrittore ma perché lo sento profondamente sincero, onesto, vero. La capacità di essere sinceri è una cosa molto rara. Lo diceva Cechov che si può mentire in qualunque ambito, nell’amore, anche a Dio, ma nell’arte no».

L’indole della Bernhardt era anche caratterizzata da una irrefrenabile curiosità e passione per la ricerca e anche lei nella sua carriera ha dimostrato di non volersi fermare mai e di osare sempre dal grande schermo al teatro, da attrice a regista, a scrittrice e ora anche drammaturga «Sì, e avrei voluto fare anche di più. Mi annoio mortalmente a rifare sempre le stesse cose, mi sembra inutile fare del surplace e quindi mi diverto a sperimentare, a battere nuove strade». E allora cosa dire ai giovani che si affacciano nel mondo dello spettacolo affinché osino? «Che questo mestiere non si può fare senza osare e vincere i propri limiti. Gli attori sono quasi tutti in partenza dei timidi, a me da ragazzina veniva la tachicardia quando entravo in un negozio, ero di una timidezza patologica. E l’ho superata in gran parte recitando, la timidezza spesso diventa il motore per fare questo mestiere perché o soccombi o lotti. Cosa vorrei che il pubblico portasse dentro di sé dopo la visione di Io Sarah, io Tosca? Le emozioni. Io non credo nel teatro come mezzo per educare, per insegnare, per trasmettere messaggi, ma come fonte di emozione». RIPRODUZIONE RISERVATA

di Michele Sciancalepore, fonte Avvenire

29 Novembre 2021