Martedì in seconda serata
Il cantante egiziano Ramy Essam in un momento dello spettacolo ideato da Valeria Raimondi ed Enrico Castellani e prodotto dal Teatro Metastasio di Prato, in scena fino al 27 febbraio al teatro Fabbricone / ph. Eleonora Cavallo

Non capita spesso di imbattersi prepotentemente nella vita dentro il teatro. E quando capita non si dimentica. Memorabile sarà l’esperienza per chi avrà l’opportunità di vivere lo spettacolo Giulio meets Ramy – Ramy meets Giulio, fino al 27 febbraio al Teatro Fabbricone grazie all’innovativa produzione del Teatro Metastasio di Prato. Il titolo in inglese fa riferimento a un incontro fra Giulio e Ramy e potrebbe risultare un po’ criptico, freddo e didascalico ma subito, una volta entrati nella sala spoglia e priva di orpelli scenografici, tutto diventa chiaro e lampante: Giulio è in questo caso il nostro indimenticato Giulio Regeni, il giovane ricercatore che stava indagando sui sindacati egiziani indipendenti scomparso il 25 gennaio 2016 al Cairo e ritrovato il 3 febbraio privo di vita, con evidenti segni di tortura sul corpo; un assassinio che attende da sei anni giustizia e verità depistate dai servizi segreti del governo egiziano. Ramy è Ramy Essam, il “Bob Dylan rock del medio oriente”, “il megafono della rivoluzione” che, con le canzoni e la chitarra come uniche armi, ha cantato per invocare la libertà in Piazza Tahrir al Cairo quel 25 gennaio 2011 della primavera araba e, da allora, contro tutte le dittature. Ramy è in esilio dal 21 agosto 2014 e sul suo capo pende un mandato di cattu ra per terrorismo: «Se tornassi nel mio Paese – spiega il cantante egiziano – sarei subito arrestato in aeroporto e portato direttamente in carcere senza alcuna spiegazione, senza prove. Mi accusano di mettere in pericolo la nazione con le mie canzoni».

Giulio e Ramy non si sono mai incontrati nella realtà, li ha uniti solo un Paese, l’Egitto, eppure questo incontro impossibile, seppur in una dimensione simbolica e metaforica, accade per davvero. A ideare e innescare questa alchemica e anticonvenzionale sintesi artistica sono Valeria Raimondi ed Enrico Castellani, in teatro noti come Babilonia Teatri, realtà d’avanguardia ormai storica da sempre in grado di produrre spiazzanti e fecondi sussulti per la mente, il cuore e la pancia. Stavolta il sussulto è deflagrato in un tumulto esplosivo e lacerante come lo sono l’energia drammatica e travolgente di Ramy e la tragedia frustrante e angosciante di Giulio. Dal punto di vista formale sarebbe un insolito “teatro concerto politico”, da quello tematico un susseguirsi di agnizioni imprevedibili e considerazioni ineludibili. Si viene inizialmente investiti dalla consueta laconica e sardonica esposizione dei Babilonia che enunciano e denunciano: dalla distorsione dell’informazione (in una tragedia conta solo il numero degli italiani deceduti) alla strage silenziosa e sistemica perpetrata in Egitto che emerge dall’oblio solo quando un cittadino italiano ne diventa vittima, dal rifiuto di fare cronaca («Non volevamo strumentalizzare né spettacolarizzare il nome e la storia di Giulio – ci confidano Valeria ed Enrico – perché il teatro per noi è altro») alla scelta di raccontare «attraverso una lacuna» perché «a volte il modo migliore per mettere in luce è lasciare nell’ombra» e spesso ciò che non si dice diventa più eloquente. «E inoltre – precisa Enrico Castellani – questa storia è piena di lacune, in primis il vuoto di giustizia e verità creato da ragioni di interesse politico ed economico che legano l’Egitto all’Italia». Non c’è in questo caso il recitato oggettivo, corale, ritmico, martellante, cadenzato tipico del teatro pop-rock-punk dei Babilonia. E il motivo ci viene svelato da Valeria Raimondi: «Il ritmo, l’oggettività la dà lui, Ramy, noi stavolta ci siamo messi ai margini, anche dal punto di vista prossemico, siamo ai lati dello spazio scenico dietro una scrivania. In realtà all’inizio avevamo anche lottato per interagire con lui con delle azioni, dei testi, ma subito ci siamo resi conto che era impossibile, venivamo respinti come da un’onda d’urto emotiva». E infatti dopo il significativo prologo dei Babilonia entra lui e insieme a lui arriva lo tsunami di note e parole, una voce e una chitarra ora graffiante, ora melodiosa e malinconica, ora potente e prepotente, uno stile hard rock e grunge contaminato con l’hip hop e a tratti venato di blues, tutto in una persona che non impersona ma che incarna ciò che racconta e canta perché vissuto sulla pelle.

Ramy Essam alterna così una sequenza di canzoni e brevi racconti strazianti e inquietanti, rabbiosi o nostalgici. E si apprendono storie che mozzano il fiato come quella dei cecchini che sparavano agli occhi: «È una delle cose più crudeli ad opera della polizia contro di noi che manifestavamo in piazza – ci confessa Ramy -. È accaduto negli scontri di Mohamed Mahmoud nel novembre del 2011 dietro piazza Tahrir al Cairo. La polizia ricevette l’ordine di sparare raffiche di pallini ai dimostranti ad altezza occhi e purtroppo le conseguenze sono state devastanti, molta gente ha perso un occhio e alcuni entrambi. È stata anche una sorta di punizione simbolica come a voler accecare la speranza e la possibilità di vedere il futuro. Ma non ci sono riusciti, hanno fallito». Altra condivisione che crea turbamento ci porta al 1° febbraio 2012 nello stadio di Port Said dove in occasione di una partita di calcio si consumò il famigerato massacro attribuito indirettamente al regime che provocando e permettendo quelle violenze creò le condizioni affinché la gente chiedesse un ritorno dell’autoritarismo. Di fronte a vicende sociali e politiche così feroci ed estreme si fatica però a comprendere come possa essere stato preso di mira con altrettanta brutalità il mondo della musica e dell’arte in generale. A spiegarcelo è lo stesso Ramy: «La musica è un’arma efficacissima di lotta pacifica. Il regime la teme perché non la può soggiogare e la dittatura è ossessionata dalla mania di controllo; possono opprimere, arrestare chiunque cerchi di dire qualcosa contro di loro, ma non c’è nessun potere autoritario che possa fermare una canzone e la sua diffusione perché la musica è contagiosa e potente. Mi hanno costretto a fuggire, ma non sono mai potuti entrare nella mia testa e mettere le manette al processo creativo delle mie canzoni. Ecco perché hanno paura, perché impazziscono all’idea di non avere la possibilità di bloccare una forza avversa».

A confermare tragicamente l’analisi di Ramy è “il caso Balaha“: Balaha è una canzone e un video che il cantante egiziano pubblicò nel febbraio 2018 e che da allora non canta più, né in pubblico, né in privato, non riesce nemmeno ad ascoltarla. È una canzone sarcastica nei confronti dell’attuale regime. Un’ironia mal digerita che è costata la galera a 7 persone e la vita a Shady Habash, il videomaker di 24 anni che aveva realizzato la clip del brano, morto per omissione di soccorso in cella dopo quasi 800 giorni di prigionia in assoluta solitudine. Ma perché in particolare questa canzone ha creato conseguenze così nefaste? «La reazione fu così radicale – ci svela Ramy – perché quando fu pubblicata il regime aveva il pieno controllo del Paese, riusciva a soffocare qualunque voce contraria e furono spiazzati da una canzone così beffarda che distruggeva l’immagine della dittatura. Fu la canzone giusta al momento sbagliato». Una tirannia che però non ha impedito alle canzoni dell’artista egiziano di ottenere 100 milioni di visualizzazioni su Youtube e allo stesso Ramy di coltivare un sogno e un desiderio: «Anche dopo 8 anni di esilio non smetto di sperare un giorno di tornare a riabbracciare la mia gente e mia mamma. E poi voglio credere che, come diceva Chaplin nel film Il grande dittatore, “l’odio degli uomini passerà, i dittatori moriranno e il potere ritornerà al popolo. Qualunque mezzo usino, la libertà non può essere soppressa”». RIPRODUZIONE RISERVATA

 

di Michele Sciancalepore, fonte Avvenire

 

 

25 Febbraio 2022