Martedì in seconda serata
Una scena di “Madre” / ph. Enrico Fedrigoli

«Senza madre Dio non può nascervi» affermava il teologo laico ortodosso Pavel Evdokimov. Data questa premessa si può sillogisticamente dedurre che un mondo che nega la maternità e in cui la madre viene ignorata, abbandonata e, una volta caduta e decaduta, viene lasciata mortalmente ferita al suo destino è un mondo senza Dio. Questo è l’empio contesto in cui un anonimo figlio ha fatto scempio del legame affettivo con chi lo ha accolto, generato, nutrito e cresciuto ed è ciò che alla fin fine resta nel profondo dell’animo dopo aver assistito per un’ora scarsa a Madre, l’ultimo gioiello del Teatro delle Albe visto al Teatro Elfo Puccini di Milano e ancora visibile il 19 marzo al Koreja di Lecce e il 2 aprile al Teatro Akropolis di Genova. Un mini-capolavoro di teatro che, solo evocando e mai spiegando, solo con una lirica verbale, figurativa e musicale e mai con prosaiche discettazioni, riesce a inchiodare la coscienza collettiva e privata alle proprie responsabilità e negligenze. Uno spettacolo multidisciplinare che fonde l’alchemica e ancestrale voce di Ermanna Montanari, che incarna e amplifica vocalmente sia il personaggio del Figlio che quello della Madre, con le espressive e impressionistiche illustrazioni disegnate dal vivo e in tempo reale col gesso bianco su carta nera da Stefano Ricci e con le note contrappuntistiche o dialogiche, avvolgenti o trascinanti del contrabbassista solista Daniele Roccato. Un allestimento, in apparenza statico per la quasi totale assenza di movimenti scenici, ma in pratica dinamico per la serrata e costante dialettica tra recitato, suono e disegno, che nasce da un conciso, suggestivo e delicato “poemetto scenico” di Marco Martinelli che lo ha scritto con una calligrafia antica e fanciullesca, così come fiabesco è il racconto.

In pratica è una minuscola favoletta in cui in una campagna romagnola c’è una mamma caduta dentro un pozzo e un figlio che dovrebbe tirarla su, ma il sospetto che ce l’abbia gettata lui si fa sempre più terribilmente fondato. Lui le parla ma non la ascolta, cerca una soluzione ma non la mette in pratica, se ne va in cerca di un rimedio ma in concreto la lascia lì e l’abbandona. L’azione drammatica è tutta qui eppure, grazie anche ai densi e taglienti versi che svelano la vera natura della “Madre” che è quella di madre-terra umiliata, bistrattata e vilipesa e il ruolo del “Figlio” che simbolicamente rappresenta l’umanità cieca, cinica ed egotica, dentro la mente dello spettatore si accendono molte riflessioni, anche teologiche come quella citata in apertura. «L’allegoria di una madre che è la terra, la nostra madre comune – spiega Marco Martinelli, fondatore delle Albe insieme alla sua compagna d’arte e di vita Ermanna Montanari – è nel testo e sulla scena esplicita e lampante. È significativo e commovente che i profeti del nostro tempo siano una ragazzina come Greta Thunberg e un vecchio come Papa Francesco che incarna in sé tutta la saggezza del mondo. Loro ci stanno dicendo in maniera molto forte e disperata che non abbiamo alternative perché questa madre va salvata, perché salvando lei salviamo noi stessi». Toccante è anche la disposizione nei confronti del Figlio da parte della Madre che non è una “Mater dolorosa” e nemmeno una testoriana “Mater strangosciàs”. È invece consapevole delle manchevolezze e inadempienze della sua progenie, ma non rassegnata, tantomeno vendicativa. Anzi, perpetua con ostinazione e passione il suo invito al figlio a calarsi nel pozzo per intraprendere il viaggio verso una presa di coscienza dolorosa ma salvifica. Ma per poter scendere nell’abisso dei propri errori e orrori, per riuscire ad ascoltare «le grida dei boschi, di tutte le foreste segate, i lamenti di tutti i fiumi avvelenati» bisogna «farsi sottile », ovvero innescare il meccanismo vitale e salutare della sottrazione. Un’impresa ardua vista l’annosa tendenza ad allargarci sempre più e ad appesantirci con inutili e ingombranti orpelli: «Siamo malati di gigantismo e ipertrofia – conferma Martinelli -, una deriva presente a livello di macroeconomia ma anche nella mente del singolo individuo quando come un cyborg non ascoltiamo e siamo chiusi in noi stessi. Ma l’invito della madre non può più essere respinto, dobbiamo spalancare le orecchie per spalancare i cuori. Non ci si deve deprimere perché la discesa è lunga ma è necessario questo processo catartico di presa di coscienza di tutte le sofferenze, le ferite e le morti che abbiamo provocato. E questo è il sacro che abbiamo massacrato e che dobbiamo riabbracciare».

Lo spettacolo non dice se l’invito viene accolto; l’iniziale sopraggiungere sulla scena del figlio non fa ben sperare. Lo si sente, grazie al grammelot di quella strepitosa cattedrale vocale che è Ermanna Montanari, arrivare mentre impreca e sintetizza tutta la rabbia del mondo in convulsi, criptici e frenetici suoni inquietanti e ansiogeni. Poi di fronte all’emergenza della caduta materna si avvita in un tanto tronfio quanto sterile sfoggio di minuziose conoscenze di tecnologia metallica che ovviamente non producono alcun effetto concreto. L’incapacità a instaurare un sia pur minimo rapporto diventa poi eclatante con le reiterate reprimende che il figlio urla alla madre dal bordo del pozzo: «Taci, stai zitta, devi stare chiusa in casa, seduta davanti alla televisione». Un ammutolire la natura che secondo il regista romagnolo è ammutolire l’altro da noi: «Siamo nell’inferno del solipsismo in cui non c’è più spazio per l’altro». Il disprezzo dell’ambiente quindi riflesso di un egocentrismo sfrenato che per Martinelli si può contrastare in un solo modo: «Bisogna smettere di fare sacrifici sull’altare degli idoli a cui siamo devoti: il successo, il denaro, la corsa alla supremazia e all’affermazione del proprio io». RIPRODUZIONE RISERVATA

di Michele Sciancalepore, fonte Avvenire

25 Febbraio 2022