Lavia, come squilla il berretto a sonagli
Buio in sala. Parte forte una musichetta un po’ nevrotica e tragicamente comica che fa sobbalzare la platea e simultaneamente dietro un sipario semitrasparente con un magistrale gioco di controluce si stagliano sagome di uomini e donne che freneticamente vanno e vengono come i “dublinesi” di James Joyce intrappolati nel loro sterile parossismo. Poi la musica si blocca, le brulicanti ombre svaniscono repentinamente, si alza il velatino e il palco appare affollato di simulacri di un’umanità varia, immobili, come se le precedenti indaffarate silhouette si fossero cristallizzate in una posa. Quasi al centro della scena su un divano sconnesso e sghembo sdraiata, accasciata, sfatta e sciatta si palesa una donna. Questo è il folgorante e impressionante inizio del Berretto a sonagli di Luigi Pirandello nella visione di Gabriele Lavia (fino al 13 marzo al Teatro Strehler di Milano) che già attraverso questo spettacolare incipit fornisce suggestioni, emozioni e penetranti chiavi di lettura. Chi segue da decenni le imprese di uno degli ultimi maestri del teatro italiano conosce bene la sua longeva frequentazione degli scritti pirandelliani. Solo negli ultimi dieci anni l’attività scenica di Lavia è stata una vera “pirandellata” perché puntualmente segnata in pratica ogni due anni da una messinscena del drammaturgo di Girgenti.
Ma dove affonda questa passione per Pirandello e perché proprio oggi la più caustica e acre delle sue commedie? La risposta va cercata sin nell’infanzia di “Gabriellino”: «Devo tutto a mia nonna siciliana Carmela Martínez de la Rosa nipote di don Josè, un grande autore drammatico spagnolo – confessa con un pizzico di civetteria Lavia – la quale mi regalò dei libri di teatro senza però immaginare la mia futura carriera. Di Pirandello me ne regalò tanti tra cui proprio Il Berretto a sonagli di cui mi aveva sottolineato tutte le battute di Ciampa. E quindi prima o poi dovevo farlo, soprattutto ora dopo tanta mortificazione del teatro volevo fare uno spettacolo che richiamasse l’affetto del pubblico. E allora ho pensato a questo testo, che Sciascia aveva definito “perfetto”, il più amaro di Pirandello, contaminato dalla pazzia e scritto nel periodo in cui fu costretto a rinchiudere la povera moglie Antonietta Portulano assillata dai demoni della follia e della gelosia, insomma l’opera in cui più di tutte Pirandello mette in scena le sue ferite e tutto se stesso».
E mette tutto se stesso anche l’attore e regista dai natali siciliani in questo allestimento all’insegna di quella precarietà e immancabile decadenza che da un ventennio caratterizza le sue messinscene con gli inevitabili mobili e suppellettili sbilenchi, semi-affossati, decrepiti e polverosi. Ma stavolta c’è una eclatante silente novità: 19 fantocci, una piccola folla di manichini a misura d’uomo, perfettamente vestiti e iperrealistici, sparsi o raggruppati a simulare la vita, «una soglia troppo affollata del nulla», pupazzi così verosimili da confondersi perfettamente con gli attori sul palco. Ma in realtà sono “pupi” e sono convitati di pietra. E così si materializza sulla scena immediatamente una delle principali esegesi del testo laconicamente sintetizzata con la celebre frase: «Pupi siamo… Pupo io, pupo lei, pupi tutti». Sono burattini infatti anche tutti i personaggi, sono un «niente di uomo», nullità, fantasmi, «uno, nessuno, centomila» manovrati dalla dittatura delle convenzioni sociali costruite su dispotiche ipocrisie, asfissianti apparenze e radicate menzogne. In questo contesto perbenista medio borghese siciliano c’è Beatrice Fiorica (pienamente incarnata da Federica Di Martino una falena fragile e sbronza nel primo atto che nel secondo diventa perfetta nel suo inquietante smarrimento) sposata col Cavaliere che la tradisce sistematicamente con Nina, la giovane moglie del suo scrivano Ciampa che accetta questa situazione pur di non perdere la consorte e purché il tradimento non diventi palese. A non accettare invece le corna è Beatrice che fa cogliere in flagrante il marito Cavaliere e, nonostante tutte le pressioni per dissuaderla, lo denuncia. Ne scoppia lo scandalo e a Ciampa non resta, per salvare la sua rispettabilità e non acclarare pubblicamente il fatto di essere «becco» e di portare il «berretto a sonagli» del buffone, che vendicare l’offesa con un delitto d’onore. Ma alla fine si presenta una paradossale via d’uscita: far passare davanti a tutto il paese e la collettività Beatrice per una pazza che ha vaneggiato e inventato tutto e costringerla a rinchiudersi per qualche mese in manicomio.
Come si fa a passare per pazza? Glielo suggerisce lo stesso Ciampa: «Basta che Lei si metta a gridare in faccia a tutti la verità. Nessuno ci crede, e tutti la prendono per pazza!». Ci si trova di fronte alla summa della poetica pirandelliana: ribaltamento realtà-finzione, paradosso verità-follia, «sentimento del contrario», tragica ironia. Ma lo spettacolo che ne fa Gabriele Lavia non ha alcun sapore di già visto: inedita la commistione fra vernacolo e italiano (in origine la commedia fu scritta nel 1916 in dialetto siciliano per Angelo Musco col titolo ‘A birritta cu’ i ciancianeddi), così come stupefacente è il gioco di controluce che crea golemiche ombre che man mano si rimpiccioliscono fino a partorire sulla scena i meschini personaggi; pure originale è l’aura di proto-femminismo che aleggia nel primo atto con una quasi ibseniana Beatrice Fiorica e la Saracena, la donna che la spinge alla denuncia, insolitamente più emancipata e meno volgare pur se sempre aspra. Ma è lo struggimento che scaturisce da una pietà verso le piccolezze, le impotenze di questa umanità pupazza unita a una vena tragica che innerva la deriva farsesca a rendere davvero unico e prezioso questo allestimento. Un risultato garantito ovviamente in primis dall’impareggiabile carisma dell’interpretazione di Lavia-Ciampa con cui si sono bene sintonizzate, oltre all’incisiva Beatrice della Di Martino, anche le prove di Francesco Bonomo nei panni di Fifì, Matilde Piana (la Saracena), Mario Pietramala (il delegato Spanò), Giovanna Guida (Assunta), Maribella Piana (la serva Fana), Beatrice Ceccherini (Nina Ciampa). Insomma, come ama ripetere il “maestro”, un classico e mirabile esempio di «un teatro che induce» e che «non morirà mai quand’anche si dovesse fare nelle catacombe». RIPRODUZIONE RISERVATA
di Michele Sciancalepore, fonte Avvenire
2 Marzo 2022