Martedì in seconda serata
Un momento dello spettacolo teatrale “Il Ministero della solitudine”, in scena a Vignola a VIE Festival e in replica a Prato il 36 novembre / Claudia Pajewski.

Capita, a volte, di imbattersi non in una semplice messa in scena, ma in una messa in atto di quelle verità della vita che ci circondano, ci passano accanto, ci sfiorano, ma non ci toccano; sono talmente accecanti che non le vediamo, a tal punto disturbanti e sfacciate che le ignoriamo, così dilaganti e invadenti che ci rendiamo impermeabili e repellenti. Capita, di rado, di andare a teatro e imbattersi in un’opera d’arte che assolve al suo compito primario: individuare e sublimare artisticamente «la cifra nel tappeto», come scriveva Henry James nel suo racconto, ovvero quella trama fondamentale e fondante che innerva e caratterizza il tessuto di una società o comunità, ma che risulta palese ed evidente solo a chi conserva uno sguardo libero, radicato nel mondo ma capace al contempo di elevarsi e osservare dall’alto. È capitato allora di aver vissuto esattamente questa inebriante e rara esperienza a Vignola, al Teatro Ermanno Fabbri, nell’ambito di VIE Festival, la ricca e prestigiosa rassegna della scena contemporanea italiana e internazionale organizzata e prodotta da Emilia Romagna Teatro fino a domenica 16 ottobre. La preziosa occasione l’ha donata lo spettacolo Il Ministero della Solitudine, la nuova impresa de “lacasadargilla”, che sarà replicato nell’immediato dal 3 al 6 novembre al Teatro Metastasio di Prato.

Il tema è universale, esistenziale, trasversale; l’allestimento ideato e realizzato è però tutt’altro che astratto o filosofico o intellettuale. È piuttosto un carosello di un’umanità impotente ma struggente, alienata e straziante, che vive, parafrasando la vertiginosa poesia di Emily Dickinson, non solo «la solitudine dello spazio, del mare e della morte» ma soprattutto quella «privatezza polare di un’anima sola con se stessa, finita infinità». In principio, a innescare il processo creativo, che ha portato l’ensemble “lacasadargilla”, guidato da Lisa Ferlazzo Natoli e Alessandro Ferrone con il costante supporto di Alice Palazzi e Maddalena Parise, a vivere due anni, interruzione pandemica compresa, di ricerche, incontri e confronti, fu una notizia che fece il giro del mondo: l’istituzione nel 2018 in Gran Bretagna del Ministero della Solitudine che si prefiggeva di far fronte ai sempre più diffusi casi di isolamento sociale e alle conseguenze a livello emotivo, fisico e sociale. Un’iniziativa, sia pur lodevole, ma figlia di un’impostazione manualistica e burocratica che non poteva non naufragare data l’impossibilità di schedare e regimentare una condizione umana esistenziale e psicologica per sua natura non catalogabile. E in effetti su quel ministero e sulla sua funzione da tempo è caduta una coltre di oblio. Difficile da dimenticare è invece l’operazione teatrale che ha materializzato sul palco cinque storie di solitudini emblematiche, dettagliate, mai retoriche, né oleografiche, ricche di pietas, prive di pietismo. In una scena che evoca il “multiverso” delle dimensioni parallele domina al centro una totemica multifunzionale e prismatica struttura girevole, ora distributore automatico di bisogni materiali, ora facciata di palazzo graffitato, o frigorifero, o luminosa arnia di api domestiche. In questo poliedrico spazio si incrociano, accavallano, susseguono i cinque personaggi chiamati “figure” perché le loro specifiche e concrete vicende riflettono e riverberano spaccati di umanità.

I cinque danno vita a soliloqui o dialoghi mai diretti, sempre mediati ed emergono così le loro malcelate, soffocate, concettualizzate, urlate o piante disperazioni e alienazioni. C’è “Primo” che di mestiere fa il “cleaner-moderatore”, ovvero, ripulisce i social network da contenuti giudicati non ammissibili. In otto secondi (questo è realmente il tempo massimo a disposizione di questi novelli “Cato censor” del virtuale) deve prendere una decisione: ignore o delete, tertium non datur, ignorare o distruggere, non c’è altra via d’uscita. È il mantra che Primo ripete ossessivamente, perfetta sintesi simbolica della sua vita autistica in cui la sola relazione a senso unico è quella con Marta, una “Real Doll”, una bambola di plastica ad altezza naturale ricettacolo dei suoi sogni e bisogni. Poi c’è “F.”, il cui nome per intero non è dato sapere perché, ossessionato dalla tutela della sua privacy, non lo esplicita mai. Separato, in difficoltà economica, tenta di diventare un apicoltore dilettante, trasuda una violenza repressa e ama solo le sue “ragazze”, le api appunto, a loro volta simbolo di isolamento e di possibile estinzione. C’è anche Teresa, insegnante che si è messa un anno in aspettativa per scrivere il suo primo romanzo. I minimali e insignificanti accadimenti della sua vita alimentano in lei illusioni e fantasie senza fondamento; vive al di sopra dei suoi mezzi economici e mentali. Accanto a Teresa ma perennemente da lei separata e divisa da un muro vero o tecnologico c’è la figlia Alma, una ventenne isolata dal mondo, vive “a colori” nei suoi sogni e cerca ostinatamente di dare una forma materica alla sua dimensione onirica. Tutti e quattro fanno domanda e chiedono un sussidio al Ministero della Solitudine e a Simone, l’impiegata, emanazione fredda, algida del luogo che rappresenta, personificazione delle procedure e dei protocolli, empatia zero, anzi insofferenza e repulsione davanti alle tristezze e alle fragilità dei casi umani che le passano tra le mani.

A incarnare queste figure con un’immanenza sbalorditiva altrettanti attori-autori che sulla scena dicono parole che essi stessi hanno scritto: Caterina Carpio, Tania Garribba, Emiliano Masala, Giulia Mazzarino, Francesco Villano. Ma c’è anche un drammaturgo super partes che ha avuto il faticoso, paziente e minuzioso ruolo di “architetto del testo”: Fabrizio Sinisi. Incredibile poi il lavoro sul corpo creato da Marta Ciappina. I componenti della “casadargilla” lo definiscono in vario modo: drammaturgia del movimento, partitura fisica, gestualità delle solitudini, danza del deficit dell’azione in scena. Ma forse c’è un calembour che ben sintetizza l’autenticità e originalità della creazione coreografica della Ciappina: la mente mente, il corpo non mente. A dirigere sapientemente il traffico di questa poliedrica collaborazione creativa i due registi-vigili: Lisa Ferlazzo Natoli e Alessandro Ferroni, quest’ ultimo creatore anche dello spazio scenico e di “paesaggi sonori”, espressione sinestetica che evoca il magistrale lavoro sul suono che risulta preciso ed eloquente, dirompente o immaginifico, comunque spaziale e olofonico, in pratica strategico perché diventa uno stratagemma narrativo. Del sonoro fa parte anche una playlist di canzoni molto pop, non un diversivo nello sviluppo degli intrecci ma una convergenza emotiva spesso commovente. Alla fine dopo un’ora e 45 minuti di questo viaggio caleidoscopico nelle voragini della solitudine se ne esce provati, ma grati per aver visto quel che oggi spesso siamo o rischiamo di essere e soprattutto desiderosi di comunione, trascendenza e spinta verticale. RIPRODUZIONE RISERVATA

di Michele Sciancalepore, fonte Avvenire

14 Ottobre 2022