Martedì in seconda serata
Un momento dello spettacolo teatrale “Faith, Hope and Charity” del drammaturgo britannico Alexander Zeldin.

«Amore in azione» è stato il motto che ha accompagnato tutto l’operato di Santa Madre Teresa di Calcutta innervando il suo agire quotidiano, coniugando il divino trascendente con l’umano immanente, spronandola a «fare cose ordinarie con amore straordinario», altro suo principio ispiratore. Alexander Zeldin, il regista e drammaturgo inglese associato al National Theater di Londra e all’Odéon di Parigi, ha realizzato un’opera che fotografa sulla scena perfettamente l’idea di un amore costantemente agito, di una dedizione straordinaria profusa in piccole ordinarie attenzioni verso il prossimo. Protagonisti non santi canonizzati sugli altari, ma anonimi eroi di tutti i giorni, emarginati che vivono sui bordi sfrangiati e deteriorati della società, elementi improduttivi da ignorare se non da rimuovere. Alcuni di loro sono stati portati dalla loro vita di outcast direttamente sul palco, altri invece impersonati da attori professionisti, tutti insieme amalgamati e senza alcuna possibile evidente distinzione hanno incarnato per due ore una di quelle pièce che giustificano la necessità del teatro, Faith, Hope and Charity, con cui Zeldin ha chiuso la sua trilogia sulle diseguaglianze, The inequalities, aperta con Beyond Caring, dedicato al tema del lavoro, proseguita con Love incentrato sulla famiglia.

Stavolta, al Teatro Argentina, fino a oggi per il Romaeuropa Festival, oggetto dello sguardo acuto e appassionato dell’artista britannico è una comunità che frequenta un centro sociale, una mensa per bisognosi, un luogo tanto accogliente quanto fatiscente dal cui tetto bucherellato cade una incessante pioggia che forma pozzanghere sul pavimento, un posto periferico ma oggetto delle mire espansionistiche del sistema capitalistico, un porto vitale per un’umanità schiacciata dall’austerity, umiliata dall’economia di mercato ma destinato a essere sfrattato e riconvertito in appartamenti di lusso. Questo spazio spoglio, nudo, gelido, con tavoli di metallo, sedie di plastica e luci al neon pullula di calorose, colorite e poliedriche pulsioni umane. C’è Beth, la mamma alienata dalla mancanza di mezzi e di amore, alle prese con giudici e assistenti sociali che le tolgono l’affidamento della sua bambina, suo figlio, il sedicenne Marc, investito di problematiche e responsabilità troppo grandi e pesanti per la sua età che rischiano continuamente di opprimerlo, c’è il vecchio Bernard frustrato per la sua incapacità di relazionarsi, il giovane Anthony colmo di rabbia vitale, Carl a cui hanno tagliato le ore di affido, Mason che, con alle spalle il carcere e davanti un’urgenza di riscatto, si adopera freneticamente per coinvolgere tutti nella formazione di un coro, infine Hazel che gestisce il centro e cucina per tutti con cura, premura e assoluta abnegazione ed è l’icona materna che, pur lacerata da una terribile ferita interiore, non si risparmia mai e dispensa bisogni materiali e morali per ognuno di loro. Alla fine il centro chiuderà, questi spaccati di un’umanità economicamente perdente ma eticamente vincente si disperderanno ma resterà nel loro cuore la musica cantata nel coro e il verso finale della loro canzone: “ciò che è vero non può morire”.

Un’onda di verità in effetti per tutta la durata dello spettacolo parte dalla scena e invade la platea sempre illuminata proprio a evidenziare l’assenza di separazione fra finzione e realtà. L’operazione artistica di Alexander Zeldin è infatti il frutto di una ricerca sul campo durata 18 mesi durante i quali ha vissuto e condiviso disagi e sofferenze, ma ha anche visto solidarietà e altruismo. Quando gli proponiamo l’espressione “amore in azione” come sintesi estrema del suo spettacolo subito concorda che si tratta di una definizione ideale: «Questo è davvero il senso di questo lavoro. In Inghilterra negli ultimi anni abbiamo avuto una situazione di grande aggressività nei confronti delle persone vulnerabili economicamente che però sono molto forti moralmente. E molti degli individui che ho conosciuto in 15 anni di esperienza nei luoghi dell’emarginazione, in cui ho fatto anche volontariato quotidianamente, agiscono e compiono atti di amore, non eclatanti, piccoli ma significativi». Un’altra evocazione spirituale è in realtà evidente anche nel titolo Faith, Hope and Charity dove il richiamo alla Prima Lettera ai Corinzi di San Paolo e al suo “Inno all’amore” appare esplicito: «Il riferimento è innegabile – ammette Zeldin – e sicuramente poi concordo con l’ultimo verso della Lettera, quando si afferma la supremazia dell’amore perché per me il teatro è il luogo per vedere e per essere visti e io cerco di fare un teatro che possa cambiare lo sguardo di chi lo vede e questo è possibile solo attraverso un atto di amore che deve partire dalla scena». Sul palcoscenico quindi il regista inglese riversa e rielabora tutta l’esperienza accumulata in tre lustri di frequentazione dei luoghi delle emergenze sociali. Inevitabile chiedergli come sono cambiate dal suo punto di vista le povertà in tutti questi anni: «Non sono un sociologo ma credo che la domanda andrebbe ribaltata: è la politica nei confronti delle indigenze che è cambiata. L’approccio di una certa destra estrema è di una criminalizzazione della povertà con una riduzione del welfare, dell’aiuto statale. Prevale sempre l’idea che se non si è produttivi si è colpevoli o perlomeno indegni di attenzione. Cosa è un essere umano? Un numero? Un cliente? Un consumatore di merce? Ma attenzione, secondo questa logica distorta, nessuno può sentirsi al sicuro e chiunque di noi può diventare da un momento all’altro Beth, Carl, Bernard o Mason. Ha pienamente ragione papa Francesco quando afferma che “lo sviluppo o è inclusivo o non è sviluppo”». A proposito di rischi Zeldin non teme affatto che il suo teatro possa cadere nell’ostentazione del dolore o dei buoni sentimenti: «Non è un timore che mi attraversa perché conosco il pericolo del sentimentalismo. Io lavoro sui sentimenti non sul patetismo». E Alexander Zeldin non teme nemmeno che l’arte abbia perso la sua forza a causa alle derive sociali e politiche degli ultimi tempi: «Il teatro può cambiare il mondo. È un bisogno umano. Se non ci credi allora smetti di farlo». RIPRODUZIONE RISERVATA

di Michele Sciancalepore, fonte Avvenire

9 Novembre 2022