Martedì in seconda serata
L’ottantenne attore teatrale Gabriele Lavia / Filippo Manzini.

Dialoghi fra moglie e marito in camera da letto davanti a un armadio a muro, bianco, lucido mentre sorseggiano il caffè: «Cara – dice lui – ma c’è sempre la camicia di forza?», «Sì, certo», risponde lei. «E dov’ è?», chiede lui. «Là», ribatte lei laconicamente. «Là dove?», insiste lui. «Lì, nell’ultimo scompartimento in alto dell’armadio», replica lei distrattamente. «E il perizoma c’è?», incalza lui. «Certo, sta lì con la camicia di forza», di rimando lei vagamente infastidita. «Allora, quasi quasi faccio di nuovo Il sogno» insinua lui con tono quasi infantile. «Ma sei matto?», di scatto lei. «Ma sì, forse ce la faccio ancora», bisbiglia lui con fare rassicurante. «Ma scherzi?», sbotta lei sbigottita. «Ma sì, tolgo qualche movimento complicato», chiosa lui quasi implorando. La coppia protagonista di questo surreale scambio di battute non è Sandra e Raimondo in Casa Vianello, bensì Federica e Gabriele in casa Lavia. Un dialogo che lo stesso Lavia ci ha confidato e che è all’origine della ripresa di quello che più che essere cavallo di battaglia è diventato croce e delizia della carriera del mattatore: Il sogno di un uomo ridicolo, il racconto capolavoro di Dostoevskij di cui il Gabriele diciottenne si invaghì a tal punto da leggerlo subito ai suoi amici più cari per poi viverlo con il corpo e l’anima con immancabili e memorabili riprese per 62 anni fino a oggi, alla veneranda età di 80 anni, al Piccolo Teatro Strehler di Milano. Sul vasto palco dello storico teatro milanese, infatti, completamente vuoto ma interamente ricoperto da una distesa di torba, in questo scenario epicamente decadente e cupamente fatiscente, Gabriele Lavia con addosso solo i suoi feticci, camicia di forza e perizoma, per ottanta minuti si lancia in un racconto fluviale in cui arranca o saltella, crolla e si rialza, esplode in urla o risate strozzate, comunque ipnotizza, incanta e scatena un’irrefrenabile standing ovation.

Per l’ennesima volta Gabriele fa rivivere Fedor, l’uomo prima ridicolo, poi pazzo, sempre emarginato che prova totale indifferenza verso il mondo e ha deciso di suicidarsi con un colpo di rivoltella. Determinato a compiere il fatidico atto incontra una bambina che gli chiede aiuto ma lui infastidito la scaccia, sale in camera per spararsi ma il pensiero va a quella fanciullina, alla compassione che ha provato e viene assalito da pentimento e vergogna per la sua reazione. Preso da questi pensieri si addormenta e sogna il suo suicidio e la sua vita dopo la morte. Nel sogno viaggia per le galassie e va a finire in un mondo simile al nostro ma puro e incontaminato, con un’umanità felice e bella. In questo eden però lui inocula il bacillo della corruzione e tutta quella umanità progressivamente si contamina e conosce la menzogna, la malizia, la vanità, l’egoismo, la gelosia, l’invidia, i soprusi, gli omicidi, la pena di morte, il male insomma. Fedor allora chiede a quell’umanità da lui corrotta di essere ucciso ma loro lo deridono e così si sveglia. Dopo quel sogno Fedor decide di dedicare la sua esistenza alla predicazione dell’unica verità che ha compreso: «Il male non può essere la condizione normale». Ma se uno dice la verità viene preso per matto, come Pirandello insegna.

Ma Gabriele Lavia dopo più di sei decenni di simbiosi con “l’uomo ridicolo” quale verità a sua volta ha colto? Il lavoro, la fatica, gli amori sono state le cose più vere della mia vita; l’amore per i figli in particolare è certamente una verità che ha segnato la mia esistenza, il punto più alto e più nobile perché è spassionato, non chiede nulla in cambio. Nel Sogno di un uomo ridicolo c’è un’esplicita citazione evangelica, “Ama gli altri come te stesso”, che lei scandisce quasi sillabandola. Perché? Perché Dostoevskij crede nel Cristo uomo e anche donna. C’è un’evidente evocazione alla figura di Cristo anche in Memorie dal sottosuolo, in particolare nella prostituta che viene derisa e umiliata. Laddove c’è un essere umano che soffre, lì c’è Cristo e lo scrittore russo lo sa perfettamente. “Amare gli altri come se stessi” Gabriele Lavia lo ritiene fattibile o una missione impossibile? Difficile, non ne siamo capaci, non riusciamo a cogliere nel prossimo quella “stessità” di cui parla Heidegger, siamo chiusi nei nostri recinti. Alla fine del racconto Fedor si mette in cammino per andare a trovare quella bambina che lo aveva risvegliato dal torpore dell’indifferenza e acceso in lui la compassione. Verso cosa o chi Gabriele Lavia si mette in marcia? Cerco di andare sempre incontro a un miglioramento, almeno come attore e come regista. Dovrei migliorare tante cose, ma non farò in tempo, morirò prima. Nonostante gran parte della sua attività teatrale sia stata caratterizzata da spettacoli che sviscerano la malattia e la morte, il suo rapporto con la vecchiaia è sempre stato a dir poco problematico e quello con la morte è di rimozione totale, ad esempio so che non va mai ai funerali. Come mai? «Perché la morte non mi piace molto, io amerei essere eterno, mi irrita il fatto di dover finire tutto, vorrei fare ancora tanti spettacoli specie adesso che ho capito qualche cosa, qualche trucco, nulla di che, so come mettere qualche proiettore. Lavia, potendo scegliere, come vorrebbe fosse l’aldilà? Con dei bei divani comodi per poter leggere, delle belle biblioteche, dei tavoli per disegnare, la mia prima passione, tanti colori, tanti pennarelli, non immagino di certo un aldilà statico. Conferma che ha già dato indicazione di mettere nella sua bara la camicia di forza e di far scrivere come epitaffio “qui giace il roscio maledetto? Sì, confermo tutto, grazie per avermelo ricordato. Parliamo di vita futura. Prossimamente vedremo Lavia sul grande schermo con il nuovo film di Pupi Avati dal titolo provvisorio La 14esima domenica del tempo ordinario. Come è nata questa opportunità? Pupi mi ha telefonato e io ho aderito subito perché le riprese si incastravano perfettamente con le mie pause in teatro, ma poi la cosa si è complicata e ora resta ancora molto da girare, ma non mi meraviglio più di tanto perché la mia vita ha un sottotitolo: “l’accavallamento”. E anche stavolta non sono stato smentito. Il suo ruolo nel film è di un uomo che dopo tanti anni incontra l’amore giovanile della sua vita, interpretata dalla Fenech. Com’ è lavorare con Edwige? Splendido, perché è una persona di una tale dolcezza, gentilezza, bontà. La Fenech dice che c’è un’intesa perfetta con lei, che è bello e che si porta benissimo i suoi 80 anni Troppo buona, ma il fatto di non sembrare così vecchio è solo dovuto ai capelli che non mi diventano bianchi, anche se Pupi non ci credeva e pensava che me li tingessi, invece è un’eredità di mia madre. Il futuro in teatro? Re Lear? Sì, ma non l’anno prossimo. Prima farò un Goldoni con pochissimi personaggi. Quale? Non dovrei dirlo ma lo dico: Un curioso accidente, un testo quasi mai rappresentato, una chicca, un capolavoro di struttura drammaturgica che funziona alla perfezione. Dovendo scegliere fra cinema e teatro? «Non c’è partita: il teatro è la cosa più importante inventata dall’uomo, il “tea-tron”, il trono della dea, ovvero della verità, l’aletheia in greco, la “svelatezza”. E che cosa svela il teatro? Il mistero. E chi è il mistero? L’uomo. Il teatro non morirà mai, morirà il cinema, anzi è già morto, le sale sono vuote, non è nemmeno durato 100 anni, ma il teatro no. Ci sarà una ragione? ». RIPRODUZIONE RISERVATA

di Michele Sciancalepore, fonte Avvenire

14 Dicembre 2022