Martone: vivo d’arte e d’amore
Quando si solleva l’enorme velatino sul palco del Piccolo Strehler l’impatto è impressionante: un gigantesco albero pervade l’intera scena innestandosi all’interno di una deprimente e fatiscente discarica con bidoni, pneumatici e carcassa di automobile. Il maestoso tronco coricato come un titano dormiente fa da passaggio, passerella, rifugio, nascondiglio o persino focolare domestico e subito si fa abitare e animare da una gaia «pipinaia», come la definirebbe Pasolini, una folta e ormonale ciurma di belli “pischelli”, come direbbe oggi un “boomer”. Sono una trentina di furenti adolescenti che, insieme a sei più maturi interpreti, danno vita al Romeo e Giulietta secondo Mario Martone (regista del film Nostalgia), in scena da oggi fino al 6 aprile in prima assoluta al Piccolo di Milano.
Croce e delizia di questo allestimento è la nutrita presenza dei giovanissimi volutamente scelti per aderenza anagrafica ai personaggi della più lacerante delle tragedie del divin bardo e che attireranno sicuramente frotte di loro coetanei i quali apprezzeranno la freschezza, l’innegabile immediatezza della recitazione, a volte arditamente ed efficacemente “rappata”, ma che subiranno anche qualche inevitabile acerbità e sciatteria. Di certo non c’è nulla di improvvisato nel lavoro che Martone ha fatto con i ragazzi che gli hanno donato spontaneità ma che a volte pur non essendo accademici risultano scolastici. D’altronde sono ragazzi e cresceranno bene grazie alla presenza di poderosi ed esperti colleghi che magistralmente sostengono e fanno vibrare le tre ore di spettacolo quali Lucrezia Guidone e Michele Di Mauro, nei panni dei genitori di Giulietta e Licia Lanera in quelli della balia che però genialmente Martone reinventa come zia della piccola Capuleti. Comunque le delizie superano di gran lunga le croci; la scenografia è fiabescamente accattivante, altrettanto incantevole il disegno luci di Pasquale Mari, incisivo e funzionale l’uso delle proiezioni video sullo sfondo, così come la colonna sonora che spazia dal pop alla techno, al ripescaggio azzeccatissimo della mitica canzone La gallina dei primi anni ’70 di Cochi e Renato. Poi c’è un tanto suggestivo quanto inondante finale in cui riveliamo solo che protagonista sarà ancora la natura che prevarrà su tutto, “sui vivi e sui morti”, come nel celebre racconto The Dead di James Joyce. Ma soprattutto c’è il tratto distintivo del teatro di Martone che ci svela perché ama l’abbattimento della “quarta parete”: «Chi mi segue a teatro sa che coinvolgo sempre la platea, mi piace l’idea di un teatro più assembleare perché mi facilita anche l’obiettivo di rendere contemporanei i classici. Il muro che cerco di abbattere è proprio la distanza fra un testo scritto secoli fa e il nostro presente, è una guerriglia fra il passato e l’attualità».
A proposito di guerra è evidente che la violenza, il conflitto sono l’anima nera di questa tragedia. Il suo allestimento pone l’accento su una violenza quotidiana che viviamo in privato… «Per me questo è uno degli aspetti più affascinanti dell’opera che è organizzata per cerchi concentrici: c’è la città, la “polis”, Verona, dove c’è lo scontro insensato, non si sa perché i Montecchi e i Capuleti si odiano, c’è una gratuità del male; andando a restringere il nostro sguardo vediamo poi che questo conflitto si riproduce all’interno delle famiglie, in particolare in quella dei Capuleti dove l’aggressione diventa davvero pesante, basti pensare alla scena in cui il padre insulta la figlia con toni e parole così volgari e offensive da fare ribrezzo. E per contrasto al centro di tutto c’è la delicata poesia dell’amore dei due giovani, di Romeo e Giulietta. Una delle scene icastiche è l’invocazione di Giulietta che chiede a Romeo di rinnegare le proprie radici onomastiche, di rifiutare il suo nome. Fa impressione se pensiamo che oggi invece si strumentalizza la propria identità per alzare muri e barriere. È un momento bellissimo quello in cui Romeo dice di rinunciare al proprio nome e ancor più quando di fronte a Tebaldo rinuncia a un ruolo. C’è da riflettere: quanti ragazzi sono chiamati a dover interpretare un ruolo con la società che impone una funzione, il chi sei, da dove vieni? Quante volte sin dalla nascita devono indossare una maschera, comportarsi o vestirsi secondo canoni precostituiti? Romeo invece è un rivoluzionario, è disposto a rinunciare al nome, all’identità, a mettersi a nudo con l’amore che sembra essere l’unico orizzonte luminoso in questo scenario di buio e morte».
Come è stato guidare artisticamente quasi trenta ragazzini? «La guida è stata reciproca. A me piace lavorare con chi è giovane e lo scambio è transitivo, così come quando ho fatto Il sindaco del rione Sanità, o Capri-Revolution. Del resto anche io ho iniziato giovanissimo ed ero sempre il più piccolo della combriccola e sono stato segnato dal confronto con artisti più grandi e più esperti di me. Adesso che sono io quello attempato mi sembra giusto e stimolante stare ad ascoltare le loro suggestioni».
A proposito di tempi passati ma mai dimenticati e sempre nel cuore in questi giorni nelle sale cinematografiche il suo docufilm Laggiù qualcuno mi ama è un omaggio che tra l’altro scava nel rapporto con l’amore del grande Massimo Troisi artista e uomo. «È stato interessante ritrovarmi a fare questi lavori quasi parallelamente. C’è un elemento che accomuna Troisi e Romeo e Giulietta, ovvero nel momento in cui l’amore riesce a diventare creazione poetica allora riesce a esprimersi e questo è il punto di arrivo di Troisi con Il postino ad esempio, mentre in tutti i film precedenti c’era difficoltà a dire, c’era afasia. Con Il postino invece sboccia questa possibilità di dire e di amare e così anche in Shakespeare: dire l’amore diventa l’amare. Ed è un dire sublime».
C’è stato qualcosa di inaspettato che ha scoperto di Troisi durante la ricerca fatta per il documentario? «Forse il suo rigore, non si staccava mai dalla macchina da presa». Qualcosa di non detto? «Si potrebbe continuare a dire all’infinito. Ad esempio ho filmato solo cinque o sei dei foglietti con gli appunti di Troisi e quelli sono uno scrigno pazzesco». In che modo cinema e teatro dialogano nelle sue opere? «I due linguaggi si parlano, nel mio teatro d’avanguardia sono stato uno dei primi a usare proiezioni, oggi ne faccio un uso solo funzionale, quasi scenografico, comunque deve essere molto chiaro che si tratta di linguaggi diversi, il teatro mi piace con i corpi, la fisicità degli attori, la concretezza, lo spazio». Il prossimo progetto/atto d’amore? «In questi ultimi tempi la quantità di atti d’amore è stata notevole e sono quasi stremato, però ce ne ho uno che farò a maggio, la messinscena al San Ferdinando di Napoli di un testo mai rappresentato dell’indimenticata Fabrizia Ramondino, con Lino Musella e Iaia Forte. Il titolo è lungo: Stanza con compositore, donne, strumenti musicali, ragazzo. E questo sarà in effetti un altro atto d’amore». RIPRODUZIONE RISERVATA
di Michele Sciancalepore, fonte Avvenire
3 Maggio 2023