David Bowie rivive in Lazarus a teatro
La prima italiana dell’opera rock in cui il “Duca bianco” riprese il suo migrante interstellare Newton de “L’uomo che cadde sulla terra”. Casadilego e Agnelli i protagonisti diretti da Malosti “Lazar-us”. David Bowie volle che il titolo del suo ultimo singolo, pubblicato il 17 dicembre 2015, e poi dello spettacolo che nello stesso anno debuttò al New York Theatre Workshop di Manhattan e rappresentò il suo «regalo di addio al mondo», evidenziasse una separazione fra la parola “Lazar”, che in un inglese un po’ desueto significa “lebbroso, barbone”, e “us”, il pronome “noi”. I lebbrosi, gli emarginati siamo noi. Lazarus, però, è anche il cognome di Emma, la poetessa statunitense autrice del sonetto The New Colossus i cui versi sono incisi sul piedistallo della “Statua della Libertà” e che oggi risuonano di una lancinante tragica ironia: «A me date i rifiuti miserabili delle vostre spiagge affollate. Mandatemi i senzatetto, i naufraghi rovesciati in mare dalle tempeste…».
Lazzaro è ovviamente anche il fratello di Marta e Maria resuscitato da Gesù. Ma lo stesso nome porta anche un altro personaggio evangelico, il povero «coperto di piaghe» che mendicava alla porta del ricco epulone. Ricapitolando: con un unico termine Bowie sintetizza una pluralità di soggetti, dalla diversità ed emarginazione all’accoglienza e solidarietà, dallo straniero al migrante, dal reietto al redivivo, alla morte, alla rinascita, alla vita eterna. Questa molteplicità tematica, che riflette la peculiarità polimorfa, cangiante, inafferrabile e caleidoscopica del Duca Bianco, farebbe pensare a un testo di impegno sociale, etico e spirituale; in realtà Lazarus, che Bowie, poco prima della sua scomparsa, scrisse a quattro mani col drammaturgo irlandese Enda Walsh, è un prodotto contraddittorio, irriverente e sfuggente, fantasioso e ambiguo, criptico e materico, amoroso e violento. Ed è soprattutto il frutto dell’ossessione di Bowie per l’infelice migrante interstellare Newton da lui stesso interpretato 40 anni fa nel film L’uomo che cadde sulla terra e che qui ritroviamo ancora intrappolato sul nostro pianeta, depresso, alcolizzato, circondato da personaggi reali o immaginari, incubi fisici o metafisici, passioni e dolori eterei o laceranti.
Superfluo addentrarsi nella trama che è lacunosa o pretestuosa, basti sapere che il disadattato alieno alla fine riuscirà in qualche contorto e conturbante modo a uscire dal paralitico limbo e a trasformarsi in qualcosa/qualcuno di vitale. Un lavoro drammaturgico per nulla memorabile ma che fortunatamente è solo il substrato di una trascinante opera musicale in cui i 17 brani del repertorio dell’artista britannico magicamente e miticamente condensano e comunicano tutto il suo vertiginoso, profondo e visionario mondo interiore. Tutto ciò oggi lo si può vedere e godere grazie a Valter Malosti, direttore dell’Emilia Romagna Teatro che ha prodotto e presentato Lazarus per la prima volta in Italia al Teatro Bonci di Cesena e che sarà in tournée fino al 18 giugno. Ha realizzato il suo sogno Malosti, regista di questa opera rock, che ammette di essere stato salvato dalla musica di Bowie quando era un ragazzino colmo di rabbia e frustrazione: «Vivevo nella periferia torinese e ho conosciuto l’umiliazione e la violenza a scuola – ci confessa – perché figlio di genitori emigrati, mio padre veneto fuggito dall’alluvione del Polesine, mia madre una ragazzina pugliese. La mia rabbia provata nei primi anni credo sia stata molto simile a quella provata dai migranti di oggi».
Di Bowie condivide anche il tratto sciamanico e demiurgico, l’anelito a un’esplorazione incessante, la curiosità verso tutto ciò che è altro da sé. Non a caso lo slogan della stagione dell’ERT 22-23 cita proprio un verso della celebre canzone Changes: «Turn and face the strange» (“Voltati e affronta l’ignoto”). Notissimi e popolari invece i protagonisti che Malosti ha chiamato per realizzare l’impresa, in primis il carismatico ed energico cantautore, storico leader degli Afterhours, ex giudice di X-Factor, Manuel Agnelli, poi la stupefacente, anche se ormai è una meravigliosa certezza, Elisa Coclite, in arte Casadilego, esplosa con la vittoria di X-Factor 2020, e l’esperta e sempre impressionante coreografa e danzatrice Michela Lucenti che per l’occasione ha impostato non solo le coreografie, ma anche interpretato superbamente Elly, uno dei personaggi della vorticosa vicenda, conferendole una inimitabile nevrotica vitalità che diventa iconica quando canta la mitica Changes personalizzandola senza tradirla con una danza che comunica cortocircuiti sinaptici.
Oltre a loro altri 15 artisti e musicisti animano una scena claustrofobica con al centro una pedana circolare mobile circondata da incombenti schermi di varie dimensioni dritti o sghembi che vomitano un montato di immagini di varia natura sempre distorte, frammentate, fitte di interferenze oppure proiettano vere e proprie scene dello spettacolo in cui gli stessi personaggi vengono ripresi in modo da suggerire costantemente una fusione e confusione fra verità e finzione. Tutto rigorosamente dal vivo e in compagnia di una esplosiva band che esalta le performance canore di Agnelli e Casadilego che da sole meritano la visione dei 120 minuti. È ovvio che quando cantano la platea vola, mentre quando recitano un po’ si perplime, le acerbità si notano, ma il lavoro interpretativo resta comunque apprezzabile, frutto di una dedizione e umiltà non scontate come lo stesso Malosti ci svela: «Manuel è concreto e sincero. Porta una ferita molto evidente che non maschera. Elisa poi porta purezza e innocenza perturbante, riesce a intenerire i cuori più duri. Di entrambi mi ha colpito la grande disponibilità a mettersi in gioco e il loro perfezionismo». Ciò che indubbiamente colpisce e ammalia il pubblico è l’impatto che Casadilego ha sulla scena alla sua prima entrata quando canta in modo angelico e straziante This is not America creando un respiro collettivo sospeso. Le abbiamo chiesto cosa c’è dietro una tale presenza scenica e la risposta dell’appena ventenne cantante è spiazzante: «Per entrare in questo personaggio irreale mi sono ispirata ai sopravvissuti dello tsunami del Giappone del 2011 che si dice vedessero i fantasmi e dialogassero con loro come reazione all’immane lutto. Poi dietro le quinte mi metto a camminare con gli occhi chiusi per circa 5 minuti finché non mi sento più tangibile. Così vado nel mio posticino e poi entro in scena».
Anche Manuel Agnelli ci rivela i suoi retroscena: «La difficoltà maggiore? La memoria. Nei concerti mi faccio mettere dei monitor coi testi delle canzoni anche perché gli altri membri della band si divertono a cambiarmi le parole; ad esempio, “la profondità degli abissi” diventa “la profondità degli infissi”. In questo caso non potevo avere l’ausilio dei monitor e allora ho dovuto lavorare molto sulla memoria. L’aspetto più esaltante? Innanzitutto la sintonia e l’empatia che c’è in tutta la compagnia. Ma soprattutto mi affascina la tensione verso l’altrove e l’aldilà che vive il mio personaggio. Io sono ateo ma credo in un passaggio di energie e gli insegnamenti così tragicamente e meravigliosamente contemporanei di Gesù Cristo sono un punto di riferimento assoluto per me». Un entusiasmo dunque evidente nella potenza dirompente di tutti gli otto brani cantati da Manuel che in chiusura regala un Heroes travolgente e commovente. E alla domanda se è mai stato “eroe almeno per un giorno” risponde così: «Mi basterebbe esserlo per un minuto». Più utopica la risposta di Malosti: «Se potessi essere eroe per un giorno andrei in Afghanistan a riportare ai ragazzi e agli studenti la musica che gli è stata censurata dalla dittatura ». Più realistica Casadilego: «Mi sento un po’ un’eroina ogni volta che sono sul palco». RIPRODUZIONE RISERVATA
di Michele Sciancalepore, fonte Avvenire
10 Maggio 2023