Martedì in seconda serata

In quel crogiuolo di colori, odori, sapori e saperi, sempre tutti sapidi, in quella testimonianza concreta che da 25 anni dimostra che la condivisione, il dialogo, lo scambio e il confronto sono la cartina tornasole del grado di civiltà umana, in quell’angolo di mondo caleidoscopico al Porto Antico di Genova in cui la convivenza festosa delle etnie dimostra che le migrazioni possono essere opportunità e ricchezza e non solo un problema, insomma in quell’inno alla vita, alla contaminazione e alla vitalità che è il Suq Festival, fortemente sognato e realizzato dal 1999 dalla visionaria ma pragmatica Carla Peirolero insieme a Valentina Arcuri, ha debuttato in anteprima nazionale uno spettacolo che parla di morte, di rimozione del lutto e fa rivivere a tutti i partecipanti il dolore per la scomparsa dei propri cari. Un paradosso? Una provocazione? No, una scelta azzeccata e logica. Quale miglior modo infatti di celebrare la vita se non con una presa di coscienza della propria finitudine? È stato uno spettacolo frutto di studi e laboratori tanatologici a partire dalla pietra miliare “Morte e pianto rituale” di Ernesto De Martino fino alle ricerche sui rituali funebri di Maria Angela Gelati, ma senza alcuna pedante, leziosa o saccente connotazione saggistica. È stato il frutto di interrogativi che gli ideatori si sono posti in prima persona riassumibili in un quesito: perché la società e la cultura di oggi non ci forniscono più gli strumenti per stare davanti alla morte? Ma soprattutto è uno spettacolo in cui finalmente la componente rituale del teatro, tanto agognata, viene davvero pienamente fatta vivere.

Si esce da questa esperienza con un misto di gioiosa leggerezza e dolorosa introspezione. E in chi ha un approccio critico rimbomba un punto interrogativo: ma quanto bisogno c’è di parlare di morte oggi e di condividere il dolore? E sempre nell’animo del critico rimbalza anche un punto esclamativo: ma quanto è bello il Teatro quando vive e fa vivere la metamorfosi continua da ludico gioco a vivido fuoco, da palese finzione a innegabile realtà, da costruzione artistica a limpida verità! Il titolo di questo spettacolo di primo acchito non fa comprendere la portata di una messa in scena, o più propriamente messa in vita, che avrà una vita oltre il Suq (da settembre a novembre sarà a Brescia, Bergamo, Torino, Firenze). “Antigone – Tragedia con canzoni” si intitola, il Teatro dei Borgia ne è il creatore. La compagnia di Barletta, già pluripremiata con diversi riconoscimenti, non è nuova a operazioni di osmosi fra arte e vita; Medea per strada, ad esempio, già nel 2016 nasceva da una potente e pungente riflessione personale scaturita dalla visione dello sfruttamento dei corpi delle prostitute nigeriane che di giorno e di notte scandivano i 30 km della statale che collega Barletta a Corato.

Da qualche anno dunque sono i miti a ispirare Gianpiero Alighiero Borgia ed Elena Cotugno, fondatori della compagnia, che più che attualizzare i protagonisti delle tragedie greche li fanno rinascere e reincarnare in persone dei nostri contesti urbani. Antigone, quindi, diventa la sfacciata, anticonformista, stravagante Ninni, anch’essa però, come la sua matrice classica, ribelle e antagonista del “nomos” laico, della legge spietata, priva di “pietas”. Anche lei lotta, si ostina e si sacrifica per dare sepoltura al fratello, ma la settima opera di “Misericordia spirituale” viene impedita dal divieto di celebrazioni funebri che tutti abbiamo subito durante i cupi giorni dell’emergenza sanitaria da Covid-19. Antigone – Ninni se ne infischia di decreti, confinamenti, lockdown e regole anti tutto di recente triste memoria, rende in modo plateale e scandaloso onore alla bara fraterna e ne consegue la rovinosa e drammatica sequela di lutti più o meno con la cadenza e la successione già versificata da Sofocle. Non sta comunque in questo racconto, qui solo accennato, il fascino e la chiave vincente del lavoro: «Il Covid in realtà – ci spiega Gianpiero Borgia ideatore e regista dell’allestimento – ha solo enfatizzato una deriva in atto da tempo. Questo spettacolo è in realtà una denuncia implicita contro il dominio del mercato che pervade ogni aspetto dell’esistenza umana a discapito del sacro, dell’affetto, della presenza, che con i social network arriva alla toilette e annichilisce ogni spazio dell’intimo. Non c’è più tempo libero, sospeso, non c’è più domenica, le feste ormai segnate dalla logica consumistica, la ricorrenza dei morti cede il passo ad Halloween, il presepe all’albero di Natale, l’astinenza è pure un tabù perché se non consumi non sei più un cliente e sei fuori o addirittura un pericolo, un intoppo per il meccanismo produttivo». Tutto ciò che è minato, ridicolizzato o ignorato, svilito e bandito dal sistema capitalistico viene invece accolto in Antigone – Tragedia con canzoni, a partire dalla morte, o meglio, dallo spazio – tempo da dedicare all’elaborazione del lutto per evitare, per dirla alla De Martino, “di passare con ciò che passa e di restare intrappolati in un’ebetudine stuporosa”.

Ma non si viene presi di petto, perché l’effetto potrebbe essere traumatico, respingente e i tabù indigeribili, piuttosto si viene presi per mano delicatamente, leggiadramente e giocosamente da tre cantori e musici (gli acerbi ma freschi e sempre in sintonia Luna D’Intino, Allegra Micaglio e Sabino Rociola) che sulle note di “Buonanotte fiorellino” invitano a entrare nello spazio scenico in questo caso più aperto che mai: l’Isola delle Chiatte, una piattaforma galleggiante, in equilibrio precario, instabile, esposta agli agenti atmosferici, una scelta perfettamente in linea con la celebrazione della precarietà dell’esistenza. Si palesano poi le vere due guide di questo percorso rituale: Christian Di Domenico, nei panni di Creonte, ed Elena Cotugno in quelli di Ismene, qui rinominata Lulù, che evocherà le vicissitudini della sorella Antigone – Ninni e di tutti gli altri sciagurati familiari. La narrazione però fa solo da sottile trama a una profonda condivisione emotiva che gentilmente si afferma e prende corpo. Si passa da un silenzio comune ai ricordi chiassosi o commoventi, ridanciani o strazianti dei cari estinti secondo i canoni dei riti funebri sempre meno oggi frequentati. Si affastellano momenti diversi, dalle odi alle dediche, dalle riflessioni problematiche alle canzoni parodistiche sui Dpcm e le dirette a reti unificate sull’emergenza sanitaria. Christian Di Domenico è più che convincente nel mostrare prima un Creonte bonario, gioviale e persino goliardico e nel finale, dopo aver rivissuto la terribile agnizione del suicidio del figlio e della moglie, profondamente dilaniato e svuotato; solo allora le lacrime diverranno la sua cifra emotiva con un tragicomico boccione che le accoglie e le contiene tutte. Elena Cotugno è perfetta nell’improvvisazione e nell’affabulazione e con aria svagata, fanciullesca e una spontanea vis comica crea le condizioni ideali per la condivisione collettiva.

Gli spettatori diventano così “spettattivi” e in prima persona, senza retorica né protagonismo, senza compiacimento né strumentalizzazione, confessano sofferenze private e mancanze dolorose e scorre una palpabile commozione, si creano spontanei abbracci, empatie e sintonie. L’immagine finale suggestiva è quella di un albero – giostra sui cui rami – ganci ognuno appende una mascherina con scritto il nome del proprio affetto perduto. Il teatro ha fatto il suo miracolo, ha scosso le coscienze, ha sollevato questioni, ha creato comunioni, ha prodotto catarsi. RIPRODUZIONE RISERVATA

di Michele Sciancalepore, fonte Avvenire

23 Novembre 2023