Martedì in seconda serata
Una scena dello spettacolo teatrale “Fantozzi. Una tragedia”, al centro il protagonista Gianni Fantoni foto di Nicolò Rocco

Si racconta che molti anni fa il grande Vittorio Gassman al termine di una tragedia classica inscenata da una compagnia amatoriale avesse esclamato: «Peccato, un altro piccolo sforzo e sarebbe stata una divertentissima commedia!». Paolo Villaggio quello sforzo lo fece eccome e la resa fu encomiabile e immortale quando nel 1971 pubblicò Fantozzi creando quel mitico personaggio che con le sue tragiche e iperboliche disavventure di sfigato impiegatuccio vessato, tartassato e umiliato, col suo focolare domestico meschino, mediocre e deprimente riuscì a far ridere a crepapelle milioni di italiani inoculando nell’immaginario collettivo innumerevoli memorabili espressioni che fondevano o ribaltavano il drammatico col comico. A più di mezzo secolo di distanza un altro grande poliedrico artista contemporaneo, Davide Livermore, regista di prosa e di opere liriche in Italia e all’estero, di indimenticabili tragedie greche a Siracusa, di quattro inaugurazioni consecutive alla Scala, da quattro anni direttore del Teatro Nazionale di Genova, si basa proprio su quella crasi fra sciagura e risata per portare in scena al Teatro Ivo Chiesa del capoluogo ligure, da oggi fino all’11 febbraio e poi in lunga e pare triennale tournée, le mirabolanti e catastrofiche sventure del ragioniere più “loser” ed esilarante al contempo. Fantozzi. Una tragedia: già nel laconico titolo infatti il sincretismo è evidente. Sul palco poi è lampante già dalla prima scena, quella “cult” della corsa contro il tempo per arrivare in orario in ufficio, quella del caffè a “tremila gradi fahrenheit” e del salto dal terrazzino per prendere “l’autobus al volo”. Il tono era epico già nell’originale, qui sfocia nel dramma classico e si rivela poi essere una sorta di prologo meta-teatrale, con un principio di amletico monologo, a cui seguono quattro atti più coro ed epilogo. Insomma un’esplicita struttura drammaturgica da tragedia greca. E a farla da padrone è proprio il padrone di casa: il teatro. È bastato aver assistito a una prova, seppur molto frammentata, segmentata da un lavoro di limatura sonora e di aggiustamenti prossemici, per godere dell’eclatante lavoro di evocazione immaginifica e uditiva, prerogativa e peculiarità dell’arte teatrale. Una scelta logica ma mai scontata che attraversa due ore e mezza di spettacolo prismatico, incalzante o sospeso, vorticoso o lirico, tragico e/o comico per l’appunto.

Tutto viene fatto immaginare, la scena è in pratica un parallelepipedo vuoto con pedana in pendenza dove si vedono senza vedere l’ufficio di Fantozzi e Filini, il camping della vacanza alternativa, la sala da biliardo dell’Avvocato Catellani, il campo da tennis, il ristorante giapponese, la mitica “Bianchina” a cui danno telaio e anche voce gli stessi personaggi. E si odono e si vedono i suoni, tutti prodotti in scena dagli attori che mimano e fanno i rumoristi con mugugni onomatopeici, versi ecolalici; è tutto molto Supergulp! Fumetti in… teatro però, non in tv. Ci sono poi invenzioni sceniche tanto semplici quanto efficaci: dalla pioggia di palline da tennis che invadono scena e platea, all’immancabile nuvoletta fantozziana, alle palle da biliardo umane che danzano e cozzano fra di loro nell’epica partita fra Fantozzi e Catellani in una sequenza in cui trattenere le lacrime per le risate sarà arduo. A solcare e domare questo mare magnum in cui pescare nella turgida e strabordante flora e fauna fantozziana accumulatasi attraverso dieci film e un’altra decina di libri ci ha pensato lo stesso Livermore con una drammaturgia che si dipana in quattro temi (Fantozzi e il lavoro, le donne, lo sport e la coscienza di classe) e creata insieme ad Andrea Porcheddu, Carlo Sciaccaluga e Gianni Fantoni. A quest’ultimo l’impegnativo compito di patire gli strali dell’oltraggiosa fortuna fantozziana. D’altronde non poteva che essere lui, l’attore ferrarese che, oltre ad avere un destino interpretativo segnato dal nome, è stato l’alter ego di Fantozzi con una voce e un phisique du rôle di impressionante aderenza e con un sogno caparbiamente inseguito da dieci anni: portare l’iconico personaggio di Villaggio a teatro. La regia è ovviamente di Davide Livermore che come sempre ha creato una partitura caleidoscopica di musica e prosa, un meccanismo ad orologeria dai ritmi perfetti in cui si innestano le invenzioni, come il personaggio strambo e spiazzante del “Dizionario fantozziano”, le contaminazioni e le evocazioni della commedia dell’arte, dei drammi shakespeariani quali Re Lear o Amleto, e delle tragedie sofoclee come Edipo Re e Filottete.

Quando lo incontriamo al termine dell’intensa sessione di prove Livermore è ancora adrenalinico e il suo entusiasmo è contagioso: «È il sogno di una vita. Mettere in scena la “nuvoletta” dell’impiegato è una cosa che avevo in mente dall’età di 11 anni quando d’estate all’isola d’Elba con la mia famiglia si rideva leggendo i libri di Fantozzi e mia mamma mi diceva: «Fantozzi siamo noi, siamo noi che non smettiamo di resistere». Ma noi in realtà stiamo messi molto peggio di Fantozzi… Il confronto con la nostra quotidianità è implacabile. Fantozzi aveva 13 mensilità, le ferie pagate, un contratto a tempo indeterminato, noi? Aveva la pensione, andava in vacanza, aveva Pina, una relazione stabile; noi abbiamo rapporti che durano forse sei mesi, se non addirittura solo scambi virtuali. Al tempo di Fantozzi l’università era pressoché gratuita come la sanità, e oggi? Infatti alla fine del nostro spettacolo Fantozzi non la manda a dire e si rivolge al pubblico dicendo: «Siamo proprio sicuri che sia solo io il fallito? Che ci sia da ridere solo di me?». Quindi il Fantozzi di Villaggio è stato profetico? Paolo Villaggio è stato uno dei due italiani che hanno cambiato profondamente la lingua nel XX secolo, l’altro evidentemente è stato Gabriele D’Annunzio. Fantozzi è l’Ur dell’italiano parlato, ha una forza politica e rivoluzionaria e ci obbliga a vedere quanta poca libertà ci sia oggi, quanto i diritti siano calpestati. Eppure in questi mesi mi sono successe cose divertenti: colleghi bravissimi, direttori di teatro meravigliosi che non mi parlano in pubblico di questo spettacolo, lo snobbano e lo ignorano ma poi in disparte, in privato mi dicono: «Ma questa cosa di Fantozzi è geniale, ne avevamo bisogno».

È il solito retaggio di quella cultura col “Kappa” che ha fatto molto per allontanare le persone, quella che si nutre di citazioni, di pose e non di azioni da vero artigiano dell’arte. A proposito di censure oggi Fantozzi potrebbe essere sottoposto alla cosiddetta “cancel culture” con l’accusa di “bodyshaming, catcalling, victim blaming, stalking”. È un aspetto che abbiamo non solo considerato ma proprio affrontato nella seconda parte dello spettacolo in cui Pina, la moglie, blocca la rappresentazione, sbrocca e si ribella alle ingiurie ricevute, oggi improponibili. Ma anche Fantozzi subisce “bodyshaming” da una spogliarellista che denigra tutte le sue ridicole fattezze e anche lui si ribella ma a differenza di Pina non ottiene alcuna solidarietà, ne esce sconfitto anche stavolta. Ma in teatro bisogna fare vedere le mancanze di rispetto, gli orrori della società, è fondamentale che Fantozzi sia tremendamente invasivo nell’ambito del “bodyshaming” perché così rappresenta uno specchio per noi. Mai una gioia per il ragioniere o in questa pletora di sconfitte si nasconde una vittoria silente? Ce n’è una fondamentale: continua a essere, quella è la sua vittoria, perdere per continuare a resistere. Fantozzi chiede sempre scusa, ringrazia, proverbiale il suo «Come è umano lei!». Oggi invece? Siamo distanti anni luce, c’è un’arroganza diffusa clamorosa, il nostro umiliarci e chiedere scusa oggi si coniuga unicamente con lo sport quotidiano tipicamente nostro che è il lecchinaggio. RIPRODUZIONE RISERVATA

di Michele Sciancalepore, fonte Avvenire

31 Gennaio 2024