Fantozzi, il mito tra le sue nuvolette
Si racconta che molti anni fa il grande Vittorio Gassman al termine di una tragedia classica inscenata da una compagnia amatoriale avesse esclamato: «Peccato, un altro piccolo sforzo e sarebbe stata una divertentissima commedia!». Paolo Villaggio quello sforzo lo fece eccome e la resa fu encomiabile e immortale quando nel 1971 pubblicò Fantozzi creando quel mitico personaggio che con le sue tragiche e iperboliche disavventure di sfigato impiegatuccio vessato, tartassato e umiliato, col suo focolare domestico meschino, mediocre e deprimente riuscì a far ridere a crepapelle milioni di italiani inoculando nell’immaginario collettivo innumerevoli memorabili espressioni che fondevano o ribaltavano il drammatico col comico. A più di mezzo secolo di distanza un altro grande poliedrico artista contemporaneo, Davide Livermore, regista di prosa e di opere liriche in Italia e all’estero, di indimenticabili tragedie greche a Siracusa, di quattro inaugurazioni consecutive alla Scala, da quattro anni direttore del Teatro Nazionale di Genova, si basa proprio su quella crasi fra sciagura e risata per portare in scena al Teatro Ivo Chiesa del capoluogo ligure, da oggi fino all’11 febbraio e poi in lunga e pare triennale tournée, le mirabolanti e catastrofiche sventure del ragioniere più “loser” ed esilarante al contempo. Fantozzi. Una tragedia: già nel laconico titolo infatti il sincretismo è evidente. Sul palco poi è lampante già dalla prima scena, quella “cult” della corsa contro il tempo per arrivare in orario in ufficio, quella del caffè a “tremila gradi fahrenheit” e del salto dal terrazzino per prendere “l’autobus al volo”. Il tono era epico già nell’originale, qui sfocia nel dramma classico e si rivela poi essere una sorta di prologo meta-teatrale, con un principio di amletico monologo, a cui seguono quattro atti più coro ed epilogo. Insomma un’esplicita struttura drammaturgica da tragedia greca. E a farla da padrone è proprio il padrone di casa: il teatro. È bastato aver assistito a una prova, seppur molto frammentata, segmentata da un lavoro di limatura sonora e di aggiustamenti prossemici, per godere dell’eclatante lavoro di evocazione immaginifica e uditiva, prerogativa e peculiarità dell’arte teatrale. Una scelta logica ma mai scontata che attraversa due ore e mezza di spettacolo prismatico, incalzante o sospeso, vorticoso o lirico, tragico e/o comico per l’appunto.
Tutto viene fatto immaginare, la scena è in pratica un parallelepipedo vuoto con pedana in pendenza dove si vedono senza vedere l’ufficio di Fantozzi e Filini, il camping della vacanza alternativa, la sala da biliardo dell’Avvocato Catellani, il campo da tennis, il ristorante giapponese, la mitica “Bianchina” a cui danno telaio e anche voce gli stessi personaggi. E si odono e si vedono i suoni, tutti prodotti in scena dagli attori che mimano e fanno i rumoristi con mugugni onomatopeici, versi ecolalici; è tutto molto Supergulp! Fumetti in… teatro però, non in tv. Ci sono poi invenzioni sceniche tanto semplici quanto efficaci: dalla pioggia di palline da tennis che invadono scena e platea, all’immancabile nuvoletta fantozziana, alle palle da biliardo umane che danzano e cozzano fra di loro nell’epica partita fra Fantozzi e Catellani in una sequenza in cui trattenere le lacrime per le risate sarà arduo. A solcare e domare questo mare magnum in cui pescare nella turgida e strabordante flora e fauna fantozziana accumulatasi attraverso dieci film e un’altra decina di libri ci ha pensato lo stesso Livermore con una drammaturgia che si dipana in quattro temi (Fantozzi e il lavoro, le donne, lo sport e la coscienza di classe) e creata insieme ad Andrea Porcheddu, Carlo Sciaccaluga e Gianni Fantoni. A quest’ultimo l’impegnativo compito di patire gli strali dell’oltraggiosa fortuna fantozziana. D’altronde non poteva che essere lui, l’attore ferrarese che, oltre ad avere un destino interpretativo segnato dal nome, è stato l’alter ego di Fantozzi con una voce e un phisique du rôle di impressionante aderenza e con un sogno caparbiamente inseguito da dieci anni: portare l’iconico personaggio di Villaggio a teatro. La regia è ovviamente di Davide Livermore che come sempre ha creato una partitura caleidoscopica di musica e prosa, un meccanismo ad orologeria dai ritmi perfetti in cui si innestano le invenzioni, come il personaggio strambo e spiazzante del “Dizionario fantozziano”, le contaminazioni e le evocazioni della commedia dell’arte, dei drammi shakespeariani quali Re Lear o Amleto, e delle tragedie sofoclee come Edipo Re e Filottete.
Quando lo incontriamo al termine dell’intensa sessione di prove Livermore è ancora adrenalinico e il suo entusiasmo è contagioso: «È il sogno di una vita. Mettere in scena la “nuvoletta” dell’impiegato è una cosa che avevo in mente dall’età di 11 anni quando d’estate all’isola d’Elba con la mia famiglia si rideva leggendo i libri di Fantozzi e mia mamma mi diceva: «Fantozzi siamo noi, siamo noi che non smettiamo di resistere». Ma noi in realtà stiamo messi molto peggio di Fantozzi… Il confronto con la nostra quotidianità è implacabile. Fantozzi aveva 13 mensilità, le ferie pagate, un contratto a tempo indeterminato, noi? Aveva la pensione, andava in vacanza, aveva Pina, una relazione stabile; noi abbiamo rapporti che durano forse sei mesi, se non addirittura solo scambi virtuali. Al tempo di Fantozzi l’università era pressoché gratuita come la sanità, e oggi? Infatti alla fine del nostro spettacolo Fantozzi non la manda a dire e si rivolge al pubblico dicendo: «Siamo proprio sicuri che sia solo io il fallito? Che ci sia da ridere solo di me?». Quindi il Fantozzi di Villaggio è stato profetico? Paolo Villaggio è stato uno dei due italiani che hanno cambiato profondamente la lingua nel XX secolo, l’altro evidentemente è stato Gabriele D’Annunzio. Fantozzi è l’Ur dell’italiano parlato, ha una forza politica e rivoluzionaria e ci obbliga a vedere quanta poca libertà ci sia oggi, quanto i diritti siano calpestati. Eppure in questi mesi mi sono successe cose divertenti: colleghi bravissimi, direttori di teatro meravigliosi che non mi parlano in pubblico di questo spettacolo, lo snobbano e lo ignorano ma poi in disparte, in privato mi dicono: «Ma questa cosa di Fantozzi è geniale, ne avevamo bisogno».
È il solito retaggio di quella cultura col “Kappa” che ha fatto molto per allontanare le persone, quella che si nutre di citazioni, di pose e non di azioni da vero artigiano dell’arte. A proposito di censure oggi Fantozzi potrebbe essere sottoposto alla cosiddetta “cancel culture” con l’accusa di “bodyshaming, catcalling, victim blaming, stalking”. È un aspetto che abbiamo non solo considerato ma proprio affrontato nella seconda parte dello spettacolo in cui Pina, la moglie, blocca la rappresentazione, sbrocca e si ribella alle ingiurie ricevute, oggi improponibili. Ma anche Fantozzi subisce “bodyshaming” da una spogliarellista che denigra tutte le sue ridicole fattezze e anche lui si ribella ma a differenza di Pina non ottiene alcuna solidarietà, ne esce sconfitto anche stavolta. Ma in teatro bisogna fare vedere le mancanze di rispetto, gli orrori della società, è fondamentale che Fantozzi sia tremendamente invasivo nell’ambito del “bodyshaming” perché così rappresenta uno specchio per noi. Mai una gioia per il ragioniere o in questa pletora di sconfitte si nasconde una vittoria silente? Ce n’è una fondamentale: continua a essere, quella è la sua vittoria, perdere per continuare a resistere. Fantozzi chiede sempre scusa, ringrazia, proverbiale il suo «Come è umano lei!». Oggi invece? Siamo distanti anni luce, c’è un’arroganza diffusa clamorosa, il nostro umiliarci e chiedere scusa oggi si coniuga unicamente con lo sport quotidiano tipicamente nostro che è il lecchinaggio. RIPRODUZIONE RISERVATA
di Michele Sciancalepore, fonte Avvenire
31 Gennaio 2024