Vuoti di memoria. Alzheimer in scena
C’è del divino ne Il grande vuoto. C’è nell’ultimo lavoro di ricerca, che la regista e autrice Fabiana Iacozzilli ha realizzato con l’apporto della dramaturg Linda Dalisi, una struggente tensione verso l’infinito, uno smarrirsi «nel deserto per donarsi in pura perdita di sé all’Assoluto», per dirla con le parole di Carlo Carretto che lo smarrimento eremitico lo ha vissuto in prima persona per dieci anni nel Sahara. Ma non immaginatevi nulla di ascetico, teosofico o teologico: Il grande vuoto ti investe con la sua spietata concretezza, ti atterra e ti atterrisce con le sue descrizioni, visioni e materializzazioni laceranti del decadimento mentale e fisico della terza età, con i ricordi persi e quelli ossessivamente reiterati con un’identica, implacabile e impietosa cadenza temporale, con le bucce e i semi del mandarino sputati nel piatto, i pannoloni per l’incontinenza, i pasticcini golosamente divorati, foto, ritagli, ninnoli, cravatte, bambole, dvd, nascosti e poi disseminati, parolacce mai proferite per tutta una vita e poi urlate senza inibizione nell’ultimo tratto della propria esistenza. C’è quindi ne Il grande vuoto una dolorosa, reale e commovente esperienza tanto materica quanto poetica, ma c’è soprattutto una verità che si può cogliere solo quando il teatro svela la sua quintessenza: la consapevolezza della fragilità, della precarietà dell’umanità che l’arte scenica mostra a partire dalla sua forma che è per antonomasia irriproducibile, effimera, mutevole, inafferrabile.
In questo spettacolo (godibile sabato 16 al Teatro Cantiere Florida di Firenze per il “Materia Prima Festival” e poi in tournée nella prossima stagione) l’intrinseca transitorietà e fugacità formale del teatro diventa sostanziale e tematica attraverso la messinscena della nostra finitudine, della nostra debolezza, della nostra mente che se ne va dalla sua terra-corpo e si fa straniera e straniata e ci impone una verità fatidica ma che paradossalmente si rivela benefica e assume contorni di bellezza. E a proposito di trasfigurazione della sofferenza c’è non a caso una domanda ben precisa che la Iacozzilli ha letto in un fumetto di Giulia Scotti e che ha scelto come punto di partenza per la sua ricerca drammaturgica: «Trasformare il dolore in bellezza. Saremo ancora in grado?». La risposta è sì, almeno per quanto riguarda la missione di questo spettacolo che è lo step conclusivo di un percorso, iniziato con La classe (Premio della Critica ANCT 2019 e quattro nomination UBU 2019) e proseguito con Una cosa enorme, che Fabiana Iacozzilli ha denominato “Trilogia del vento”. E un pasoliniano «vento sempre senza pace» soffia ora delicatamente, ora leggiadramente, o con sferzate impetuose e scudisciate lancinanti, comunque incessantemente, sui novanta minuti di questo terzo capitolo della trilogia. Se volessimo fare un torto, o quantomeno un depistaggio, basterebbe dire che Il grande vuoto racconta l’Alzheimer sul palcoscenico. La demenza senile c’è, indubbiamente, così come il calvario della malattia neurodegenerativa che affligge il disorientato paziente e mette a dura prova la pazienza dei familiari che se ne prendono cura. Ma qui non c’è solo l’iter, sia pur significativo e problematico, del decadimento psicofisico e delle dinamiche relazionali che rischiano di confliggere o implodere, già peraltro magistralmente rappresentato sia in teatro che al cinema dal drammaturgo francese Florian Zeller con Il padre. Con Il grande vuoto si intraprende soprattutto un viaggio iniziatico in cui la debolezza rafforza la coscienza, l’arte e il gioco teatrale con la sua apparente inutilità e gratuità diventa l’unica cosa che resta e che si prende gioco delle sinapsi inceppate e delle arterie sclerotizzate.
Il convitato non di pietra ma di memoria viva, infatti, è proprio il teatro, una presenza ancora latente nella prima scena ma che fa già capolino dietro le quinte. Sul palco infatti all’inizio c’è una piccola utilitaria e due anziani che danno vita a siparietti tanto esilaranti quanto toccanti, armeggiano con buste della spesa, chiavi della macchina, occhiali che cadono per terra, pasticcini, ventaglio, uova e olio per le frappe, sciarpa che resta chiusa nello sportello, arance che rotolano, foglioline da togliere dal parabrezza, agitazioni e risatine, rimbrotti e ricordi, ammiccamenti e risentimenti, allusioni e illusioni e mentre fumano nell’auto che non ne vuole sapere di mettersi in moto si capisce che lei era un’artista. L’abitacolo si riempie di fumo, lei scende e lui, un incisivo Ermanno De Biagi, resta seduto e svanisce insieme alla macchina che si allontana. Lui non c’è più, fa parte del passato, ora c’è lei (una impareggiabile Giusi Merli che definire interprete è riduttivo) decisamente vecchia e inesorabilmente sul viale del tramonto cognitivo. Inizia così una parabola che sembra discendente e sprofondare in quella dimensione tragicomica che segna il quotidiano di una memoria fusa e confusa. Lo scenario ora è la casa in cui la mamma perde sempre più i cocci che i due figli (gli impeccabili Francesca Farcomeni e Piero Lanzelotti) cercano di raccogliere con ostinata, amorevole e a volte furibonda fatica di Sisifo. Immancabile anche la figura della badante (Mona Abokhatwa, neofita sul palcoscenico ma ben centrata) che con la sua buona dose di pragmatismo fa da contraltare a tensioni e disfunzioni.
E ci sono anche le proiezioni video, non un ausilio, nemmeno un escamotage drammaturgico, bensì un geniale stratagemma giustificato da un bisogno funzionale che la stessa figlia esplicita in scena: «Mettere le telecamere in casa è stata una necessità: con rilevamento intelligente del movimento e notifiche istantanee ti permettono di non perdere mai niente di quello che sta succedendo dentro casa e con l’istallazione di più dispositivi puoi seguire i movimenti in ogni stanza. Le usano per i cani ma mia madre non ha ancora iniziato ad abbaiare». Ma in quella che sembrava essere una discesa fatale nell’oblio c’è un punto fermo nell’universo emotivo della vecchia mamma che non ha mai dimenticato di essere stata un’attrice, che non ha mai smesso di ricordare e recitare il monologo del Re Lear nella tempesta anch’egli con la mente sconvolta in sintonia con la furia degli elementi naturali. E nell’immaginifico finale, quando il gioco del teatro vince sulla mortifera decadenza, la mamma si veste da Re Lear e il vento e scintillanti fiocchi abbagliano la platea e illuminano il buio della memoria, lo strazio fa spazio alla leggerezza, il grande vuoto alla grande pienezza. RIPRODUZIONE RISERVATA
di Michele Sciancalepore, fonte Avvenire
18 Marzo 2024