Martedì in seconda serata
La compagnia teatrale Stivalaccio in scena

Luigi Pirandello in Uno, Nessuno e Centomila ammoniva che nella vita siamo destinati a incontrare «tante maschere e pochi volti». Ma se si incontrano gli ardimentosi ragazzi di Stivalaccio Teatro si scoprono maschere che non sono affatto sinonimo di ipocrisia ma che, come ci svela Anna De Franceschi, dal 2013 una delle colonne di questa feconda compagnia veneta di teatro popolare, veicolano verità, non nascondono nulla, anzi amplificano ed enfatizzano sentimenti, costringono gli attori a esternare senza mezze misure le loro emozioni. Le maschere in questione sono quelle storiche della commedia dell’arte e il pensiero inevitabilmente va all’Arlecchino del grande Ferruccio Soleri che connotava la maschera come «una prigione foriera di libertà» o a Dario Fo che ricordava che «quando indossi la maschera non puoi mentire». Sulla scia di questi maestri anche StivalaccioTeatro da più di un decennio ha messo in atto una meritevole e acclamata opera non di riesumazione archeologica degli Zanni bensì di vincente ricreazione scenica, di rivisitazione brillante, di adattamento calzante alla contemporaneità. «Nessun Arlecchino in jeans sia chiaro – ci tiene a precisare Marco Zoppello fondatore della compagnia nel 2007 insieme a Michele Mori – non ce n’è affatto bisogno. Il pubblico quando vede Arlecchino vede sempre tutti i servi del mondo e tutti gli sfruttati dell’umanità».

La novità è possibile solo attingendo alla tradizione, scriveva T.S. Eliot nel suo fondamentale saggio Tradizione e talento individuale. E in effetti la compagine veneta ha operato uno studio meticoloso delle tradizioni mettendo a punto lavori senza polvere e senza tempo. Un’entusiasmante dimostrazione di un passato che si rinnova, di un’arte antica calata nel presente la compagnia la sta dando con Arlecchino mu-to per spavento che ha alle spalle una settantina di repliche, sarà da oggi fino a giovedì al Teatro Eleonora Duse di Genova e poi in tournée per tutta la stagione. Il 25 e 26 marzo Stivalaccio sarà atteso oltralpe alla Sorbona e poi al Théatre Hebertot per dare prova, come accadeva nel XVII secolo, dell’abilità di commedianti all’improvviso. In pratica si chiude un cerchio perché la genesi del loro Arlecchino ci riporta proprio in Francia, a Parigi, nel 1716 quando Luigi Riccoboni, in arte Lelio, fu chiamato a rinverdire i fasti della Comédie Italienne e, non avendo a disposizione un Arlecchino padrone della lingua francese, fece, con un colpo di genio tutto italico, di necessità virtù rendendo il celebre variopinto servo muto in seguito a uno spaventoso stratagemma. Marco Zoppello ci confessa di aver scovato in un mercatino dell’usato il dimenticato canovaccio del Riccoboni mai più rappresentato dai primi del ‘700, di averlo cucito addosso agli attori della compagnia selezioal nando le scene più funzionali, scremando quelle meno efficaci fino a elaborare un testo rimasticato più volte e comunque in continuo divenire. Ancora a distanza di due anni di recite sgorgano battute, scherzi e istrionismi vari frutto di un ascolto e interazione costante col pubblico.

Sintetizzare pertanto la trama di una commedia molto contaminata, a tratti farsesca e che ha una durata imprevedibile perché si nutre di fughe, improvvisazioni e divertimenti, in senso etimologico di deviazioni, è impossibile. Si può però estrarre l’esoscheletro di questa rappresentazione parafrasando il prologo di Romeo e Giulietta: nella bella Milano, dove la scena è collocata, due famiglie di pari dignità di comune accordo decidono di far convolare a nozze i loro rispettivi rampolli così da potenziare i loro antichi ori. Dai lombi fatali di questi casati amici trae vita una nuova coppia di sfortunati amanti, che con una apparente morte ribaltano il gramo destino per loro disegnato e con frizzi e lazzi l’avidità dei loro genitori seppelliscono. In effetti si ride, e pure tanto, grazie a una ricca ricetta in cui tutti gli ingredienti sono amalgamati in modo sapiente ed equilibrato: ritmo, tempi comici, prestanza fisica, prontezza di spirito, presenza scenica, mimica, florilegio dialettale, abilità canora e musicale, scenografia semplice e funzionale e ovviamente duttilità interpretativa di tutti i commedianti, dall’iperenergetico Arlecchino di Marco Zoppello, che cura anche la regia, a Michele Mori in grado di rendere un personaggio esilarante senza mai cadere nel macchiettismo fine a se stesso, a Sara Allevi, Marie Coutance, Matteo Cremon, Stefano Rota, Pierdomenico Simone, Maria Luisa Zaltron.

Una considerazione a parte merita Anna De Franceschi che interpreta una sorta di Pantalone al femminile e che soprattutto ha incarnato lo spirito del testo e della compagnia in grado di ribaltare il problema in risorsa: «Quando abbiamo iniziato a provare lo spettacolo – ci racconta Anna – ero incinta settimo mese e non mi sono tirata indietro, anzi ho sfruttato pienamente le mie oggettive difficoltà motorie nel calarmi perfettamente nel personaggio della matrona ingombrante e impacciata nei movimenti ovviando così a salti e capriole». Altra innegabile risorsa del teatro di Stivalaccio è il talento nell’improvvisazione che nell’Arlecchino muto per spavento si esalta in un divertissement col pubblico che ricorda il “Pietro Ammicca” del grande Proietti. Ma anche la dote del recitare all’improvviso richiede disciplina e attenzione: «Una regola dell’impro – ci svela infatti Zoppello – è che l’idea lanciata dal compagno in scena è sempre geniale, non bisogna mai mortificarla, devi sostenerla e reagire». Anche la maschera necessita di allenamento, cura e premura e soprattutto di un artigiano in grado di fare un lavoro che richiede perizia, passione, pazienza, tempistica d’altri tempi. E dietro le maschere degli Stivalaccio c’è infatti un artista del volto più unico che raro: Stefano Perocco con alle spalle collaborazioni prestigiose con Peter Brook e Leo de Berardinis e un presente in cui non si stanca di cesellare, modellare, maneggiare, scolpire gesso, plastilina, legno, cuoio e palpitare insieme al pubblico in platea quando le sue maschere sono sul palco. E anche sulla natura delle maschere ci sono svelamenti inaspettati: «Una buona maschera deve funzionare in maschera e in contro-maschera – spiega Marco Zoppello – ovvero in quello per cui è fatta e nel suo contrario; se nasce per un personaggio come quello del capitano spavaldo e arrogante deve anche funzionare per trasmettere pavidità e terrore». Insomma tanto lavoro e altrettanta curiosità sono le pietre angolari di StivalaccioTeatro che oggi sembra incarnare appieno l’assunto del poeta Eliot: «La tradizione non può essere ereditata e, se la vuoi, devi ottenerla con grande fatica». RIPRODUZIONE RISERVATA

di Michele Sciancalepore, fonte Avvenire

26 Aprile 2024