Malati immaginari soltanto per provare a esistere
Andare a teatro è salutare e necessario perché si può sperare di vedere e percepire la fragilità. Quando il teatro riesce a coglierla e a condividerla allora svela la verità dell’esistenza umana, ovvero la sua precarietà. Ne Il malato immaginario, regia di Andrea Chiodi, protagonisti Lucia Lavia e Tindaro Granata, prodotto dal Centro Teatrale Bresciano, in scena al Teatro Sociale fino a domenica e poi in tournée, di fragilità ce n’è tanta, prima ancora dell’apertura del sipario, qui in realtà un tulle che, ancora calato ma sollevato al centro quel tanto che basta, fa intravedere l’oggetto silente, inanimato ma cruciale suo malgrado, simbolo della caducità umana: il water. Quando il velo si alza si svelano gli altri coprotagonisti scenici: la vasca da bagno, un imponente lastricato di piastrelle bianche da toilette, un mega lampadario che avrà un ruolo simbolico emotivo, più defilato un pianoforte. Non quindi i classici arazzi, letti a baldacchino, poltrone e addobbi alto borghesi, solo una scarna, fredda, asettica contemporaneità che acuisce la solitudine del malato immaginario e rende pungente il gelo delle relazioni.
Domina il bianco e nero, nella scena e nei costumi; d’altronde la malattia con le sue funzioni corporali azzera i colori, ottenebra la mente, monopolizza le emozioni, annichilisce la vita. Se poi si tratta di patologie immaginarie allora non c’è scampo, non si campa più e non c’è guarigione. Grama, ansiogena e senza più alcuna brama è la vita di Argante, il malato immaginario di questa tragicommedia, ormai divenuto ipostasi dell’ipocondria, circondato da medici cialtroni, alle prese con purghe, clisteri e salassi, accompagnato da una moglie cinica che mira solo ai suoi beni e spera nella sua dipartita, con una figlia infelice promessa al figlio di un medico ovviamente, e controllato a vista dalla sua serva Tonina scaltra, forte, vero demiurgo della vicenda che orchestra i ribaltamenti, smaschera le situazioni e lacera il velo dell’ipocrisia. Ma in questa onirica e in filigrana anche cupa versione l’ipocondriaco padrone alla fine muore.
È evidente il rimando alla sorte dello stesso Molière che il 17 febbraio del 1673 dopo la quarta replica nei panni di Argante spirò. Ma è intrigante anche un’altra chiave di lettura: l’ipocondriaco non sa più vivere senza la sua inseparabile, insana compagna, ha bisogno del malessere per essere e già più di tre secoli fa il grande commediografo francese aveva intuito, molto prima dell’avvento della psicanalisi, che la malattia poteva diventare una culla mortale, un esiziale ciucciotto, un vessillo da esibire per attirare compatimenti, accudimenti, attenzioni, una forma insomma di egocentrismo. E se non si è più guardati non si esiste più e allora ad Argante/Molière non resta che un’ultima irreversibile soluzione: uscire di scena, morire per esistere. L’adattatrice e traduttrice del testo Angela Dematté paragona poi la patologia del malato immaginario alla deviazione tutta contemporanea di chi si autorappresenta nei malanni più intimi per cercare «un qualsiasi sguardo genitoriale che ci permetta di esistere».
Lo spettacolo quindi, come scriveva Hofmannsthal, nasconde la profondità in superficie, coniuga leggerezza e profondità grazie alla sapiente regia e agli interpreti, tutti all’altezza. Tindaro Granata è magnetico, duttile e accattivante, scivola vertiginosamente dall’essere Argante a incarnare Molière, sa essere struggente e divertente. Alla Tonina invece dà tutta se stessa Lucia Lavia, energica, briosa, travolgente, a cui difetta solo un po’ di fluidità nell’eclettismo che la regia prismatica di Andrea Chiodi richiede. Grande affiatamento nel resto della compagine che valorizza la coralità dell’allestimento che ha nella contaminazione e pluralità di generi la sua croce quando si compiace della sua dimensione estetizzante, ma anche la sua delizia quando passa con nonchalance dalla farsa alla denuncia sociale, dal cabaret berlinese straniato e mimato alla vena commovente, dall’interpretazione epico-brechtiana a quella passionale, dal metateatro al dramma intimo. RIPRODUZIONE RISERVATA
di Michele Sciancalepore, fonte Avvenire
24 Gennaio 2025